Possiamo immaginarci che nel corso della sua storia il fiume Secchia non abbia solo intimorito con le sue piene e le sue esondazioni periodiche le popolazioni che hanno abitato il suo territorio né che il fiume sia stato per esse solo fonte indispensabile di acqua per le esigenze quotidiane e per la sopravvivenza. Non è solamente, da sempre, una comoda via di comunicazione e di commerci, né solamente una risorsa economica grazie alla forza motrice dell’acqua che per secoli ha mosso le pale dei mulini o delle filande. Il fiume è anche un luogo piacevole, in cui la bellezza della natura riesce a prendere il sopravvento sull’incessante lavoro di contenimento dell’uomo. Anche quando l’uomo è intervenuto pesantemente sul territorio per piegarne le caratteristiche a suo favore, il fiume ha mantenuto la sua attrattiva. Nell’antichità il fiume fu oggetto di culto, così come alcuni boschi che ricoprivano i territori circostanti, ai margini dei quali sono state trovate sepolture etrusche e romane. Dei Romani è noto l’amore per l’acqua e per il benessere che da esse deriva. La frequentazione del fiume come luogo di svago deve essere stata abituale anche in passato. Lo era almeno fino a qualche decennio fa, cioè a memoria d’uomo, quando le scarse possibilità economiche rendevano il bagno in Secchia l’unica occasione di vacanza per molti, soprattutto per i più giovani. A Rubiera si nuotava vicino al Tresinaro usando gli argini murati come trampolini, mentre più a nord ci si buttava nel “gorgone” uno specchio d’acqua protetto da gabbie metalliche. Nel modenese, a nord-est di Cittanova, esisteva un punto detto “Capocabana” in cui ci si bagnava con gran divertimento. A partire dagli anni trenta per fortificare la gioventù il Fascismo inventò le colonie elioterapiche, grazie alle quali i giovani godevano in riva al Secchia del sole e dell’aria aperta.
I ricordi dei giochi in riva al fiume sono ancora vivi negli anziani di oggi. Nel 1981 Giovanni Venturelli nel libro “Rubera ad’na volta” così scriveva: “Era quasi consuetudine per i ragazzi, specie nelle giornate festive, l’adunarsi sotto qualche porticato del paese e, tutti assieme, raggiungere uno dei due bellissimi vialetti ombreggiati dalle annose piante d’ippocastani. I vialetti conducevano al fiume Secchia e nei vasti spiazzi che costeggiavano il fiume i ragazzi svolgevano i loro giochi. Uno dei divertimenti abituali era il gioco del “bagher”. Inizialmente ogni ragazzo s’ingegnava di andare alla ricerca, lungo il greto, del ciottolo adatto al gioco, che consisteva in una specie di piastra ben spianata e sottile, maneggevole, che serviva per abbattere il “bagher”. Il”bagher” era un altro sasso, ma di forma molto diversa dalla piastra: questo era un ciottolo a forma di breve prisma rettangolare, su cui venivano posti i soldi che costituivano il premio al vincitore del gioco. Ogni giocatore metteva in palio la propria quota, che normalmente consisteva di un bolognino (due centesimi) o un soldo (cinque centesimi). Posti i soldi all’apice del “bagher”, i giocatori, dopo avere fatto a pari o dispari su chi poteva essere il primo a gettare la piastra, si ponevano ad una certa distanza dalla posta e da lì gettavano la piastra contro il bersaglio. Chi lo colpiva intascava la sommetta. Sembrava un gioco facile, ma invece non lo era: occorreva occhio e abilità nel getto, perchè la piastra, essendo piuttosto leggera e sottile, roteava su se stessa, subiva l’influenza dell’aria, alle volte molto intensa, che spesso deviava la traiettoria. Se era alta e pesante si maneggiava male ed occorreva un notevole sforzo nel lancio.”
E ancora:
“L’ultimo dell’anno, nelle berlète di Secchia, sul fare della sera, dopo il gioco, avevano la consuetudine di bruciare l’anno vecchio, ignorando purtroppo che, col passare del tempo, più o meno lungo, sarebbero stati poi gli anni a vendicarsi bruciando anche loro quantunque in quel momento fossero giovanissimi.
Si raccoglievano sterpi, spine, erbacce secche, che lungo il fiume crescevano a dismisura, tanto da arrivare ad altezze notevoli. Tante volte si faceva un pupazzo con stracci, paglia ed erbe, tenuti assieme con spago e filo di ferro. Poi si incendiava, fra canti ed esclamazioni di gioia dei più giovani.
A sera inoltrata, tutti assieme, stanchi ma lieti, i ragazzi tornavano alle loro case.”
Ancora ricordi d’infanzia legati al fiume:
“Sempre lungo la riva del Secchia in qualche pomeriggio festivo, si giocava anche a “sacagnina”. Questo gioco veniva pure ripetuto nei pomeriggi feriali, dopo la scuola, in paese. Il gioco era pressoché uguale all’altro del “bagher” e cioè consisteva nel porre al suolo un gruppo di monetine di rame, per lo più impilate fra di loro: poi, da una certa distanza, veniva lanciato un soldone (10 centesimi) verso la piletta, quello che più si avvicinava ad essa era il vincitore.
Ciascuno, perciò, teneva ben d’occhio i 10 centesimi che lanciava, perchè
non andassero confusi con quelli degli altri giocatori.
Poi l’arbitro, con la sua misura in mano, accertava chi fosse il vincitore.”
Venturelli ricorda poi come le canne raccolte in Secchia fossero usate per fare le ali degli aquiloni fatti volare correndo lungo le rive.
Sempre dallo stesso volume leggiamo della “branda ed San Zorz” (la merenda di S. Giorgio):
“Un vastissimo bosco si estendeva lungo tutta la riva del Secchia, a settentrione del ponte ferroviario.
Numerose erano le piante: quercie, roveri, pioppi, gattici, cipressi, olmi, diverse qualità di conifere, fra cui il pino marittimo, che si specchiavano nelle limpide acque dei gorghi-laghetti che pullulavano appena al di sotto della sponda. Erano gorghi nati dall’acqua sorgiva o dal vortice rovinoso della corrente contro i manufatti in difesa della sponda; ricchissimi di pesce, costituivano la delizia dei pescatori indigeni e dei paesi limitrofi.
In questo bosco di formazione millenaria nelle giornate festive spesso convenivano i rubieresi in cerca di pace e ristoro.
Ma la riunione più singolare e caratteristica avveniva il 21 aprile, S. Gior
gio, quasi come inno alla primavera: “La Brenda ed San Zorz”.
Di buon mattino, appena il cielo biancheggiava ad oriente, se non era nuvoloso e piovoso, intere famiglie, con i loro rifornimenti di cibi, prendevano la volta del bosco. Nei piazzali, fra canti e suoni di fisarmonica, mandolino e chitarra, si consumava la “Brenda”, fatta anche con pesce fresco preso nei gorghi con “al balanzain” o “al tramai”, infarinato e fritto sul greto in fornacelle improvvisate con grosse ciottole di fiume, il tutto innaffiato da generoso lambrusco.
La “Brenda” finiva nelle ultime ore della sera, quando ormai il bosco si oscurava e diventava silenzioso, gli uccelli che tutto il giorno avevano saltellato, cantato, dormivano, cullati da tremule foglie e con le testine raccolte sotto le ali.
Il bosco faceva da frangivento alle intense brezze di Secchia ed evitava l’eccessivo essicamento del terreno interno.
E’ interessante la sua storia. Apparteneva, sino al XI secolo, all’Ospizio di S. Maria di Ca’ di Ponte, iuspatronato Boiardo, poi, dal 1423, Sacrati, quando i Boiardo furono investiti della Conte a di Scandiano. La popolazione aveva libero accesso e dal sottobosco i meno abbienti ricavavano legna, erba o vi pascolavano animali.
Improvvisamente, con chirografo del 1765, venne con violenza incamerato da Francesco III duca di Modena e successivamente venduto al Conte Antonio Greppi di Milano. .
Egli trasformò tutta la sua Vastissima proprietà, bosco compreso, in Bandita, cioè in riserva di caccia, pesca e pascolo, tutto a suo personale favore ed uso, con vincoli feudali, tanto da arrivare alla costituzione di un vero e proprio foro legale in Rubiera, da cui venivano le concessioni di affitti di pascolo, permessi di caccia, pesca e cattura di uccelli con reti o spari di arma da fuoco, ma solo nei casi di festività, come nei solenni riti matrimoniali.
L’ingresso al bosco fu limitato e concesso a coloro che, dietro pagamento, vi pascolavano animali e la “branda” si svolgeva nei primi spiazzi del bosco, sotto l’occhio vigile dei guardiacaccia. E’ inspiegabile come signori che se la spassavano nella metropoli lombarda, in mezzo agli agi e alle ricchezze di ogni genere, abbiano tolto con tanta disinvoltura l’uso del sottobosco ai poveri del paese, per i quali era fonte di vita, e lo abbiano ceduto in affitto a poche persone, anche dei paesi limitrofi, a prezzi irrisori.”
Oggi il fiume è meta nei tratti più accessibili di bagnanti attirati dalla vicinanza alle città e dalla possibilità di stare a contatto con la natura ed abbronzarsi con poca spesa ed un breve viaggio. I percorsi creati all’interno della riserva della cassa di espansione del fiume Secchia, studiati per essere percorsi a piedi o in bicicletta da chiunque ami la natura e ricchi di flora e fauna attirano un sempre maggior numero di visitatori. Questi, anno dopo anno, possono osservare come la natura, dopo le pesanti conseguenze delle trasformazioni dovute all’intensa attività estrattiva attuata nel letto del fiume nei decenni scorsi, si stia adattando alla nuova situazione e si stia riappropriando, con soluzioni nuove, degli spazi che l’intenso processo di antropizzazione e sfruttamento avevano stravolto o eliminato completamente. Sono tornati, infatti, gli uccelli acquatici, la flora e la fauna di un tempo e si riscontra l’adattamento di nuove specie alle differenti condizioni ambientali. Sicché, il fiume ora è anche luogo in cui si rispetta e si osserva la natura a debita distanza, per una volta senza interferire.
Bibliografia:
- Giovanni Venturelli “Rubera ad’na volta”,
- AAVV “Riserva naturale orientata. Cassa di espansione del fiume Secchia” Giunti editore 1998.
ATTIVTA’ LUDICHE LUNGO LA SECCHIA
Possiamo immaginarci che nel corso della sua storia il fiume Secchia non abbia solo intimorito le popolazioni che hanno abitato il suo territorio con le sue piene e le sue esondazioni periodiche, né che il fiume sia stato per esse solo fonte indispensabile di acqua per le esigenze quotidiane e per la sopravvivenza. Non è solamente, da sempre, una comoda via di comunicazione e di commerci, né solamente una risorsa economica grazie alla forza motrice dell’acqua che per secoli ha mosso le pale dei mulini o delle filande. Il fiume è anche un luogo piacevole, in cui la natura riesce a prendere il sopravvento sull’incessante lavoro di contenimento dell’uomo. Anche quando l’uomo è intervenuto pesantemente sul territorio per piegarne le caratteristiche a suo favore, il fiume ha mantenuto la sua attrattiva. Nell’antichità il fiume fu oggetto di culto, così come alcuni boschi che ricoprivano i territori circostanti, ai margini dei quali sono state trovate sepolture etrusche e romane. Dei Romani è noto l’amore per l’acqua e per il benessere che da esse deriva. La frequentazione del fiume come luogo di svago deve essere stata abituale anche in passato. Lo era almeno fino a qualche decennio fa, cioè a memoria d’uomo, quando le scarse possibilità economiche rendevano il bagno in Secchia l’unica occasione di vacanza per molti.