Il paesaggio

Il fiume Secchia nasce nell’Alpe di Succiso, nel reggiano e scende, assieme ai suoi affluenti, con un andamento a carattere torrenziale a causa della notevole pendenza del terreno, fin verso la zona collinare. Da lì rallenta la sua corsa bruscamente ed entra nella pianura tra Modena e Reggio Emilia. La sua portata è incostante, con magre d’estate e piene autunnali e primaverili. Nel corso della sua discesa trascinò con sé enormi quantità di ghiaie, sabbie, limi ed argille che, nel corso dei millenni, formarono depositi dette “conoidi” all’imbocco della pianura. I materiali più pesanti si depositarono subito, mentre quelli più leggeri, con limi e sabbie lo fecero più a valle. Queste grandi quantità di ghiaie di maggiori dimensioni formavano una sorta di ostacolo per l’acqua che scendeva a valle e provocavano un rialzamento progressivo del letto del fiume. Tali depositi, lasciati all’imbocco della valle, provocavano la deviazione a destra o a sinistra del flusso delle acque che allagava le terre circostanti e le rendeva umide ed acquitrinose. Assorbite in parte dai depositi drenanti alla fine della fascia collinare le acque si immergevano nel sottosuolo formando falde acquifere e sbucavano, fino a non molto tempo fa, nella Bassa creando a valle fontanili e risorgive che trasformavano larghi tratti di territorio in vere e proprie paludi. Durante alcune escavazioni sono stati trovati lungo il fiume, sotto nove metri di ghiaia, nella zona di Rubiera, i resti di molti, enormi, tronchi e ceppi di alberi: querce, salici, olmi, carpini, pioppi e ginepri che formavano un bosco abbattuto da devastanti piene circa 3500 anni fa e che testimoniano la presenza di una foresta sub – boreale, già antica all’epoca di tali catastrofi. Qualche anno fa a Cavezzo, durante la trivellazione di un pozzo, fu trovato un tronco fossile a 16 metri di profondità. Molto prima, lo spazio occupato ora dalla pianura padana, era un mare che nel Pliocene, tre milioni di anni fa, si cominciò a riempire grazie ai depositi portati dai fiumi che scendevano dalle Alpi e dagli Appennini già formatisi. Più tardi, nel Pleistocene, i ghiacciai col loro lento movimento attanagliarono la futura pianura, portando a valle altre enormi quantità di depositi ghiaiosi, argillosi e sabbiosi. Fu così che lentamente, il mare che occupava lo spazio tra le due catene montuose si riempì. Nelle argille troviamo ora molluschi terrestri fossili, mentre le ghiaie come le arenarie di Ranzano sono di origine marina e nella zona di Bismantova ci sono macro e microfossili, segni di un vivace brulicare di forme di vita ormai estinte.

Numerosi ritrovamenti archeologici testimoniano la presenza umana in epoca preistorica. Questi, antichi abitanti dovettero muoversi in un ambiente ostile. Una fitta selva nebbiosa, acquitrinosa e paludosa, abitata da numerose specie animali tra le quali i lupi e gli orsi, sopra un terreno non livellato come quello attuale, ma ondulato dalle acque.

Tra il XVI ed il XIII secolo a. C. il paesaggio della pianura nei pressi del fiume cambiò perché le popolazioni della pianura si organizzarono in comunità stanziali, forse le prime città della pianura, che vennero chiamate “terramare” da terra marna, ossia quei rialzi del terreno particolarmente adatti alla concimazione. Le terramare erano villaggi costruiti su palafitte, al di sopra di una altura naturale, vicina ad un fiume protetti da palizzate difensive e circondate da un fossato artificiale o naturale, pieno d’acqua. Un esempio ne è la zona detta La Levata a Campogalliano, oppure verso le colline il centro di Montale Rangoni. Attorno a tali insediamenti ci si deve immaginare una distesa di foreste, ricche di flora e di fauna, con radure entro le quali sorgevano i villaggi ed un territorio circostante coltivato ad orzo, miglio e legumi, mentre si praticava l’allevamento degli ovini, dei caprini e dei bovini. Era utilizzato anche il cavallo. Da queste popolazioni furono scavati anche dei canali, sia per rendere meglio drenato il terreno al fine metterlo a coltura, sia per motivi difensivi. La civiltà delle terramare sfruttò il territorio circostante utilizzando le zone asciutte per le coltivazioni, ma anche i boschi ed il fiume per la caccia e la pesca. Lentamente le palafitte si interrarono, riempite dagli scarti e dai rifiuti dei loro abitanti. Verso il X secolo a. C. il territorio lungo il fiume Secchia vide la presenza della civiltà Villanoviana di cui è testimone la necropoli di Panzano o la tomba della bambina di Rubiera. Misteriosa è la presenza e la sepoltura di due notabili Etruschi a Rubiera. Le loro tombe, i cui cippi sono stati rinvenuti lungo le rive del Secchia testimoniano l’esistenza di un centro amministrativo caratterizzato dalla presenza di uno Zilath ossia di un magistrato distrettuale (il futuro Praetor romano). Il fatto che fossero due personaggi importanti apre, infatti, alcuni interrogativi sui motivi della loro permanenza a Rubiera. Ci fu nella zona di Rubiera un vero e proprio centro di direzione amministrativa etrusca? Purtroppo le piene del fiume ne hanno cancellato le tracce. Tra il VI ed il V sec. a.C. la zona tra Secchia e Panaro dovette apparire   costellata da piccoli villaggi e fattorie, pur permanendo larghe zone disabitate. Uno spostamento progressivo del Secchia verso ovest con ritorni successivi verso est compromisero la lettura della zona dal punto di vista archeologico.

La prima vera rivoluzione paesaggistica della sua storia la pianura padana e la zona del Secchia la conobbero con l’arrivo dei Romani, che entrando da est a partire dal III sec. a.C. fino alla metà del II, la colonizzarono e ne modificarono profondamente l’aspetto. Tracciata ufficialmente la via Emilia nel 187 a.C, percorso che probabilmente già esisteva sotto forma di pista in terra battuta, formatasi con il passaggio nel tempo delle popolazioni che da secoli abitavano la regione; fondate nuove città o rinnovate quelle che già esistevano, i Romani suddivisero a poco a poco l’immensa pianura in centurie, ossia in quadrati di circa 710 metri di lato. Ogni centuria era il simbolo della presenza umana, della civiltà di Roma, che nulla lasciava alla spontaneità. Ogni lato di una centuria era un confine preciso e diritto e poteva essere costituito da un canale di scolo, da una strada campestre, da un piccolo fosso o da un altro manufatto. Fu così che la pianura padana fu invasa, disboscata, misurata, suddivisa, bonificata, assegnata e coltivata in ogni suo ettaro; “una seconda Natura, che opera a fini civili”, così W. Goethe definì il popolo romano. L’esigenza di dare terre coltivabili ai coloni, che spesso erano militari in congedo, portò come conseguenza la necessità di sostituire al paesaggio spontaneo e selvatico quello razionale ed artificioso delle centurie. Il fiume Secchia, secondo le leggi di Roma, faceva parte del demanio pubblico. Così gli agrimensori romani intervennero pesantemente sul territorio e quindi sul paesaggio, al fine di piegare la natura alla volontà ed ai bisogni delle popolazioni che l’avrebbero occupata. Venne attuata una capillare opera di bonifica delle zone paludose ed un forte disboscamento, sia per liberare terra da destinare all’agricoltura, sia per soddisfare le esigenze edilizie delle nuove città. Dove si mantennero i boschi fu per una scelta consapevole, come nel caso dei boschi sacri, luoghi ritenuti abitati da entità sovrannaturali. I Romani, mantennero vicino ai fiumi, zone acquitrinose e boschive, anche per   consentire l’allevamento dei suini che si cibavano delle ghiande. Polibio così descrive la regione: “...la parte dell’Italia fra l’Appennino le Alpi e l’Adriatico considerata la più ragguardevole di tutta l’Europa per l’estensione di pianura e per fertilità, dove il grano, il panico ed il miglio vi abbondano come il vino. Grande è l’abbondanza di ghiande che traggonsi dai querceti per la campagna a varie distanze e può arguirsi da ciò che moltissime bestie porcine vengano uccise per essere mangiate e per riporsi ad uso degli eserciti; e quelle Pianure forniscono tutto il nutrimento che abbisogna…” Alcuni toponimi testimonierebbero la presenza di fondi appartenuti a stirpi di coloni romani, come Prignano, altri come saltus indicherebbero forse un bosco, un campo coltivato o un pascolo, altri come Sabbione, antichi depositi alluvionali. Una zona mantenuta selvaggia fu detta “boscaglia di Mutina paludosa” e si narra che in essa i Galli sconfissero i Romani di Cremona e Piacenza. Tali paludi esistevano ancora nel medioevo ed erano conosciute col nome di “paludi di Cittanova”. Gli insediamenti rurali che insistevano sulla centuria furono trasformati dalle originarie capanne di legno in fattorie in epoca tardo repubblicana. Durante l’impero, agli edifici rurali furono aggiunte vere e proprie residenze di lusso. Il paesaggio dovette perciò apparire per molti secoli fortemente definito e disciplinato dalla presenza dell’uomo e da esso mantenuto in uno stato che ne consentisse lo sfruttamento. La via Emilia era l’unità di misura di questo territorio: da essa partiva la suddivisione in centurie ed era una delle più importanti dell’impero, una strada dritta, interrotta nel suo percorso da città prospere, ai lati della quale si dipartiva un reticolato di campi coltivati ed abitati. Durante il periodo della dominazione romana sulla pianura il Secchia doveva scorrere più ad est rispetto ad oggi, più vicino a Modena. Lo testimonierebbero tracce di paleoalvei fossili. Nella pianura padana si trovano tre tipi di terreno: argilloso, sabbioso e limoso e scendono dall’Appennino in fasce da ovest verso est. La tipologia del terreno indica dove passava il fiume: uno di questi antichi letti del fiume Secchia passava vicino a Cavezzo, Medolla, Mirandola, San Felice e Massa Finalese e si univa al Panaro all’altezza di Finale Emilia; tale era percorso prima dell’VIII sec. a C. I testi latini riportano poi la testimonianza di alcuni fiumi come il Secula o Secies e Gabellus. L’identità di quest’ultimo è incerta, ma sono numerosi gli antichi segni geologici del passaggio di diversi fiumi nella pianura. Dalle “paludi di Cittanova” uscivano alcuni canali Sicla e Muclena, volgevano verso Marzaglia, mentre quello detto Acqualonga, che dava il nome anche ad un porto fluviale, volgeva a nord, in direzione Bastiglia e Solara. La lunga crisi dell’impero romano ed il calo demografico comportò l’abbandono e lo spopolamento delle campagne che, non più curate da parte degli agricoltori e degli agrimensori romani, tornarono lentamente ad uno stato selvaggio. I canali, non più puliti e dragati e probabilmente condizioni climatiche più piovose provocarono sistematiche alluvioni, alcune devastanti. Il Longobardo Paolo Diacono descrive come tragica quella avvenuta tra il 588 ed il 589 d.C. I fiumi Secchia e Panaro, nella Bassa non avevano un corso preciso ma, sui terreni argillosi si dividevano in tanti fiumi con un corso irregolare che mutava direzione e si allargavano allagando la pianura fangosi e lenti verso nord, anche a causa della pendenza minima del terreno. Era il Po che influiva sul corso dei fiumi, perché essi si dovevano adattare alla sua capacità di smaltire le acque nel mare. Le acque si raccoglievano in laghetti o invasi lacustri il più grande dei quali era quello di Bondeno. Nell’VIII secolo a.C. il Po deviò verso nord tra Guastalla e Brescello dirigendosi verso Bondeno e Ferrara. Secchia allora piegava ad est a Cavezzo, verso Finale dove si univa al Panaro ed al Reno e sfociava in Po. Il Po mutò percorso anche tra il 1150 ed il 1200. Dalla metà del XV secolo il Secchia assunse l’attuale percorso e deviò verso nord a Concordia per andare direttamente nel Po.

L’incuria e la diminuzione della presenza umana, unite ad una generale insicurezza del territori fecero sì che nel medioevo le paludi e l’incolto, i boschi e le selve cancellassero in molte zone i segni della centuriazione romana, come ad esempio si osserva nel territorio di Campogalliano, dove ne rimangono poche tracce. In altri luoghi della pianura la centuriazione si conserva perfettamente. Le popolazioni dell’Europa centrale che dopo i Romani abitarono la pianura non contrastarono questo inselvatichimento dell’ambiente, perché in realtà vi si trovavano perfettamente a loro agio, essendo esse originarie delle foreste dell’Europa centrale.

Gli insediamenti altomedioevali sembrarono collocarsi nel territorio secondo una logica difensiva rispetto alle acque del fiume. Furono fondati, infatti, sui punti più alti, dove gli abitati più difficilmente potevano essere invasi dalle acque del fiume Secchia o di altri canali: un esempio tra tutti Cittanova, nuovo insediamento della popolazione modenese fondato nell’VIII secolo. Le violente alluvioni seppellirono, a poco a poco, 1a Mutina romana sotto uno strato di metri di fango. Stessa sorte toccò alle ville rurali romane e a buona parte della centuriazione.

Con i Longobardi riprese il disboscamento, mentre i Franchi protessero le selve con un’apposita legislazione a favore delle riserve di caccia. Nel medioevo, tra il X e’ l’XI secolo, tutto o quasi tutto il territorio lungo la Secchia era posseduto da feudatari che utilizzavano e sfruttavano il fiume come parte integrante del loro feudo e secondo i privilegi loro concessi dal complesso sistema dei rapporti feudali. Il percorso del fiume divenne un viaggio interstatale. La gran parte del territorio era di proprietà di monasteri che ricevevano le terre anche da lasciti testamentari di privati cittadini che speravano, donando alla chiesa i loro beni terreni, di guadagnare la salvezza per la propria anima. Fu così che tra lasciti privati e concessioni reali il patrimonio terriero dei monasteri si accrebbe enormemente, basti pensare a quello dell’Abbazia di Nonantola. Molti di questi territori andavano bonificati e tolti dallo stato di abbandono in cui si trovavano e perciò l’autorità reale longobarda le concesse ai Benedettini, i quali le affidarono ai privati in enfiteusi o con contratti di livello. Segno che il problema della gestione del territorio era sentito come essenziale. Il territorio restava infatti in gran parte boschivo ed ostile. Dante ricorda ancora la spaventosa “selva oscura” di epoca altomedievale, nonostante tra la fine del XIII e gli inizi del XIV secolo, larga parte del territorio italiano e padano fosse stato già disboscato e sotto controllo. Fu forse la costruzione del canale di Carpi a consentire la coltivazione di quelle terre, abitate da una scarsa popolazione di servi della gleba ed affittuari. E’ del 1202 il trattato di pace stipulato tra i comuni di Modena e Reggio Emilia sulla riva del fiume Secchia, vicino al nuovo castello di Rubiera, con il quale si regolava la navigazione e l’utilizzo delle acque del fiume tra le due comunità. Agli inizi del XIII secolo il fiume tornò ad essere via di comunicazione per i commerci e fonte di energia motrice, soprattutto per consentire l’attività dei mulini ad acqua. I nuovi castelli, come quello di Rubiera e Marzaglia o quello di Sassuolo presidiavano il fiume ed il suo territorio in quanto esso era una linea di confine.

La fondazione della Rubiera medievale, con le sue strade dritte e perpendicolari alla via Emilia, sottintende un progetto urbanistico e politico preciso da parte del comune di Reggio: riappropriarsi in modo ufficiale di una porzione di territorio lungo il fiume, evidentemente importante politicamente e strategicamente. Tale territorio, segnando il confine tra le due comunità rivali di Modena e Reggio dovette essere considerato dagli uomini del tempo un luogo pericoloso, così per popolare il borgo di Rubiera il comune di Reggio esentò i coraggiosi pionieri dal pagamento delle tasse. Il paesaggio della pianura dovette, apparire largamente incolto ed impaludato e le coltivazioni dovettero essere limitate al contado, ossia a quella fascia di alcuni chilometri intorno alle città, più facilmente difendibile. I contratti medievali di compravendita dei terreni mostrano che il prezzo di questi aumentava all’aumentare della loro vicinanza alle mura. In epoca medievale e rinascimentale l’importanza dei boschi intorno alla Secchia fu notevole per l’allevamento dei suini che si nutrivano delle ghiande delle querce. Il bosco forniva inoltre la legna per il riscaldamento invernale ed il legname per l’edilizia delle città. Furono, inoltre, territorio di caccia libera per la popolazione.

Le guerre della prima metà del ‘300 sconvolsero, oltre che la vita degli uomini anche il paesaggio. I cronisti dell’epoca ricordano, come tutto il territorio di Campogalliano nel 1326 e nel 1335 fosse stato devastato da Nicolò d’Este intenzionato a prendere possesso della cittadina. Lo stesso avvenne nel 1341 anno in cui i raccolti del dei fondi coltivati vicino allo stesso castello furono saccheggiati per sfamare le truppe estensi e per oltraggiare la comunità. Tra il 1343 ed il 1344 sempre le campagne dì Campogalliano vennero messe a ferro e fuoco. Tali scorribande, soprattutto nella Bassa durarono per secoli tanto che periodicamente, fino al ‘700 il territorio fu saccheggiato e percorso da truppe ostili.

Ci furono molte alluvioni anche tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo, di cui si ha memoria nelle descrizioni del Lancillotti, mentre alla fine del ‘400 il monastero di Santa Chiara di Carpi commissionò lo scavo di nuovi canali per la deviazione del corso del fiume.

Il territorio del Secchia nel XVI secolo fu caratterizzato dal permanere delle paludi e da lunghe strisce di bosco, largamente utilizzate come riserve di caccia per i signori del luogo. Alfonso I d’Este nel 1523, dopo essersi ripreso Rubiera sottrattagli da papa Giulio II, decise di atterrare, tutti i borghi cresciuti intorno alla città e i boschi, pericoloso rifugio per i nemici in caso d’assedio. Sin dal medioevo lo spazio intorno alle rocche sorte lungo il Secchia fu tenuto libero dalla vegetazione per consentire una visione estesa sulla pianura circostante e poter dare l’allarme con largo preavviso, in caso di attacco nemico. Lo spazio intorno al forte di Rubiera rimase libero fino agli inizi del XX secolo. E’ interessante ricordare la creazione del giardino signorile che abbelliva la rocca di Campogalliano. Rocca e giardino sono andati perduti, ma essi costituirono un esempio di differenziazione paesaggistica rispetto al bosco naturale o rispetto ai campi coltivati. I giardini annessi alle rocche abbellirono ed addolcirono la durezza dei castelli che non ebbero più solo scopo difensivo, ma divennero   anche residenza per il riposo e lo svago del signore.

Il giardino poi, in quanto improduttivo, si differenziava dal resto del paesaggio in quanto spazio naturale chiuso che solo il ricco può permettersi e che, al contrario del bosco selvaggio e spontaneo, è pensato e progettato dall’uomo per il suo diletto. Le essenze arboree del giardino signorile erano però quelle del bosco: dal bosco sono prese, infatti, le piante più adatte per creare siepi e quinte verdi.

Per tutto il XVI secolo permase poi l’utilizzo del fiume come via di trasporto di persone e merci e la sua corrente fu utilizzata come forza motrice. Basti pensare ai mulini natanti di Concordia, che sfruttando la velocità della corrente nel meandro che la Secchia crea in quel punto, macinarono per secoli galleggiando tra i flutti del fiume. Tali mulini, piazzati su strutture galleggianti furono sin dal medioevo e fino al secolo scorso una costante del paesaggio fluviale italiano. Di essi non resta traccia, ma furono per secoli importantissimi per l’economia delle comunità vicine al fiume. Negli anni 20 e 30 del ‘500 Modena accusò la città di Concordia di intasare con i suoi mulini il fiume Secchia, la cui acqua, trattenuta e rallentata dalle pale e dalle strutture di questi, rischiava di esondare intaccando l’equilibrio dei canali della città. Infatti, i depositi limacciosi creati dalle chiuse dei mulini alzavano il letto del fiume e costringevano i Modenesi ad aumentare l’altezza degli argini. Furono così stipulati dei patti con i Pico, signori di Concordia per limitare il numero dei mulini.

In una seconda del 14 gennaio 1742, lo scienziato Abbati descrive così le paludi di Fontana: “Il luogo è posto tra un’antica et alta ripa a cui anticamente si appoggiava il fiume e da cui si distaccò in parte spontaneamente e in parte è stato distaccato dai ripari fatti in difesa del Canale di Carpi e le berléte dette di Rubiera. Codesto continente siccome fu letto di Secchia, così si è sempre mantenuto nella primitiva sua bassezza, si perché le ivi copiosissime sorgive ne dilavavano le deposizioni, si perché l’indole naturale dei fiumi è di alzar sempre le ripe…quindi ne succede che il sito è come una conca et un seno di acque stagnanti”. Una conca di circa duecento biolche “di terra infruttifera, di sterile valletta a parte qualche poco di incerto pascolo. Succede pòi che, nella (e)state, le sorgive s’allentino e per la forza del sole scuoprendosi qua e là il terreno fangoso e putrido, questo esali delle evaporazioni talmente pregiudiziali che gli abitanti del sito molto ne soffrono nella salute, come l’esperienza ne dimostra; avendo sino il parroco di Fontana abbandonata la cura, sostituendo altro curato abitante in diversa villa, per non soggiacere alle malattie ivi sofferte!” Rubiera fu considerata zona malarica sino agli inizi del ‘900 e l’Amministrazione comunale faceva periodicamente richiesta di chinino agli organi statali deputati alla sua distribuzione.

Sin dal ‘500 e forse anche da prima, il paesaggio della pianura padana lungo la via Emilia fu caratterizzato da una forma di coltivazione detta “piantata”. Essa era caratterizzata da filari di alberi che potevano essere salici, olmi e pioppi piantati a distanze regolari, sugli argini dei fossi. Attorno ai tronchi degli alberi veniva coltivata la vite che cresceva e si allungava tra una pianta e l’altra formando una sorta di catena di festoni. La terra in mezzo ai filari di “alberi vitati” veniva coltivata con grano o altro. Tale sistemazione rimase in uso fino ad epoche recenti e diede per secoli ai visitatori l’impressione di una pianura ordinata e disciplinata. Naturalmente rimasero aree incolte, a brughiera, aree paludose e boschive. La piantata creava campi di forma regolare ed il colpo d’occhio da luoghi sopraelevati rispetto alla campagna dava l’impressione ai viaggiatori che la pianura fosse ricoperta da una selva rada e perennemente mossa dal vento. I campi larghi e lunghi furono dotati di sistemi di scolo permanente, migliorando quindi i risultati della produzione agricola. Tra 600 e ‘700 si diffuse anche la coltivazione del gelso per nutrire i bachi da seta, della risaia e dei prati artificiali e delle foraggiere, del granoturco e delle prime piante industriali ossia canapa e lino. A partire dal XVIII secolo e per tutto il XIX secolo le grandi famiglie di proprietari terrieri modenesi e reggiani costruirono le loro ville di campagna da cui controllavano i loro poderi divisi in appezzamenti di dimensioni tali che potessero consentire la sopravvivenza di una famiglia in affitto. Tra la seconda metà del ‘700 e la prima metà dell’800 le zone irrigue della Bassa furono adattate a risaia. Tale coltivazione costringeva a regolare il flusso delle acque con nuovi sistemi di irrigazione e con canali di scolo, che davano una grande regolarità al paesaggio. Campi squadrati e larghi per permettere l’irraggiamento dei raggi del sole, caratterizzavano queste colture nella Bassa.

Alla fine dell’800 la pianura fu solcata dai binari della prima ferrovia che la tagliò in due ma agevolò il trasporto di uomini e merci da un capo all’altro di essa. Con la facilità degli spostamenti aumentò la competitività tra produttori ed intensificò gli scambi commerciali tra regioni. Ogni zona si specializzò in alcune colture ed il nord divenne una sorta di granaio d’Italia. Le bonifiche, opere importantissime che modificarono radicalmente il paesaggio della Bassa nella prima metà del ‘900, portarono ad una maggiore disponibilità di terre da coltivare e ad una sistemazione idraulica permanente del territorio. Aumentarono le coltivazioni intensive e le colture industriali come la barbabietola, il pomodoro e la frutta. Le risaie non furono più permanenti. A poco a poco a partire dagli anni 30 del 900 il paesaggio fu sempre meno caratterizzato dalle piantate, che furono sostituite dai campi aperti, anche a causa della diminuzione della coltivazione della vite.

Il paesaggio attuale risente della presenza umana e delle sue esigenze. Una abbondante attività estrattiva di ghiaia e di materiali inerti dal letto della Secchia, legata ai bisogni dell’edilizia ed il prelevamento di acqua per le produzioni industriali hanno modificato il fiume, diminuendone la portata e la tendenza ad esondare. Sono scomparsi i fontanili e le risorgive, così come le paludi, ormai bonificate dai consorzi con grandi opere pubbliche. Le casse d’espansione del fiume hanno risolto il problema delle inondazioni che fino agli anni ’70 hanno periodicamente sconvolto il territorio. Se da un lato assistiamo ad una crescente presenza umana e ad una suo pesante intervento sull’ambiente, dato dalla crescita delle città, degli insediamenti industriali e dalle infrastrutture, come per esempio la costruzione della linea del treno ad alta velocità, dall’altro assistiamo a fenomeni di adattamento della fauna e della flora alle mutate condizioni naturali. Così, da anni si osserva nella riserva orientata delle casse di espansione   il ritorno dell’avifauna che da tempo non sostava più nella nostra regione, mentre nuove specie di piante si stanno adattando all’ambiente lacustre.

 

Bibliografia

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