Pannelli della mostra tenutasi a Palazzo Sacrati di Rubiera, inaugurata il 17 marzo 2011 nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia.
“Don Giuseppe Andreoli primo martire”
portico interno di palazzo Sacrati
Testi della mostra a cura di Fabrizio Ori – Ufficio Cultura
La Società dei Sublimi Maestri Perfetti
Nei Dominj Estensi e nel Ducato di Parma era già attiva, degli anni dieci dell’Ottocento, una setta denominata Società dei Sublimi Maestri Perfetti, erede della Società clandestina Adelfia, soppressa nel 1818 ed in contatto diretto con la setta del Gran Firmamento di Parigi, per mezzo delle società clandestine torinesi. La Carboneria, associazione a tutt’oggi dalle misteriose origini francesi legate all’attività di Briot un commissario e deputato francese che aveva lavorato anche in Italia, aveva forse il compito principale di coordinare tutte le sette che si erano sviluppate in quei primi anni turbolenti del XIX secolo. Propagandava comunque pericolosi ideali di democrazia repubblicana. Pur essendo piuttosto inconcludente e caratterizzata da progetti politici vaghi come quello generico di mitigare l’assolutismo del ducato, le sette politiche fecero molta paura ai governi reazionari europei, soprattutto a quello estense, pienamente per legami di sangue e quindi per ragioni politiche, nell’orbita austriaca. La società dei S.M.P. era suddivisa in Chiese e dal 1818 di queste ce n’erano una a Reggio ed una a Modena. Ce n’erano una anche a Parma ed un’altra a Guastalla. Gli S.M.P. reggiani erano ventotto e solo otto di loro sfuggirono all’arresto che condusse gli altri a Rubiera.
Nel reggiano, grazie al prestigio di cui godeva almeno dal ‘500, per aver dato i sovrani al ducato e per la sua posizione intermedia, il comune di Montecchio era la zona di riferimento per i settari che intessevano rapporti con i cospiratori di Parma e del nord. Tutti loro erano divisi da diverse sensibilità politiche ed ideologiche, ma li accomunava l’appartenenza con classi elevate per censo e cultura ed un esasperato senso della lealtà e dell’onore ed un imprudente idealismo, caratteri tipici tutti di una mentalità che noi ora definiamo “romantica”. Dal 20/21 settembre 1820 l’appartenenza alla Carboneria rientrava, per volontà ducale, tra i gravissimi delitti di lesa maestà, punibili con la pena di morte, anche in effige (si rompeva un cartello con su scritto il suo nome) se il condannato fosse stato contumace; se deceduto si procedeva “contro la sua memoria”.
A Lubiana, nel gennaio 1821, il gruppo di governi che avevano a riferimento Vienna si riunì e decise di reprimere i moti nel Regno delle Due Sicilie. Francesco IV d’Asburgo d’Este fu in quell’occasione il più fervente assertore della repressione. Come se non bastasse un volantino, che paragonava l’oppressione ungherese a quella italiana, aveva incitato le truppe magiare che passavano negli Stati Estensi, nel febbraio del 1821, a non andare a ripristinare l’ordine e ad abolire la costituzione a Napoli. Il duca Francesco IV arrestò, in quell’occasione, parecchie persone che poi sarebbero state coinvolte anche nel processo di Rubiera. alcune dimostrazioni di studenti della facoltà di legge portò al decentramento fuori città dei convitti studenteschi ed al numero chiuso nella facoltà. Il 24 marzo 1821 si parlò per la prima volta di un Tribunale speciale per giudicare i delitti di tradimento, ribellione e turbativa della tranquillità pubblica.
Il ritrovamento di un diploma massonico
L’Alta Polizia venne in possesso, a seguito della denuncia del Podestà della Mirandola Pietro Vischi, di un diploma di massonico, trovato al Dott. Antonio Sacchi, notaio praticante a Reggio. L’arresto di Sacchi il 3 febbraio 1822 aiutò le indagini successive, poiché costui rivelò al terribile Capo della Polizia modenese Giulio Besini molte, molte cose. Gli arresti si protrassero dal 3 febbraio al 4 aprile 1822. Tra gli arrestati in quei giorni il generale Carlo Zucchi. Gli interrogatori iniziarono nelle ore successive ai fermi o al massimo entro le 24 ore e furono determinanti le confessioni dei primi, che provocarono decine di arresti alla volta. Tutti gli interrogati furono rei confessi o delatori. Le polizie d’Italia erano in contatto costante e si scambiavano informazioni sui ricercati, sui sospetti e sugli arrestati. Caratterizza questa prima fase dell’attività cospirativa, l’ingenuità e la leggerezza dei comportamenti con cui i settari si apprestavano a fronteggiare regimi organizzati e repressivi. Lettere compromettenti lasciate incustodite, diplomi massonici firmati dagli aderenti, cerimonie segrete di affiliazione improvvisate durante cene o feste da ballo. I settari non ebbero, inoltre, una linea comune di difesa, ignoravano le leggi, si conoscevano tutti tra loro.
Nella capitale estense fu il Besini, Capo della Polizia che condusse i duri interrogatori, favorito da poteri più ampi rispetto a quelli dei suoi colleghi del Lombardo-Veneto e di Parma. Egli pagò con la vita tale sollecitudine ed il 15 maggio 1822 fu pugnalato a morte da uno studente universitario un certo Morandi. Accusò moribondo un suo rivale, che fu pestato a sangue nonostante fosse estraneo alla cosa. Secondo Antonio Panizzi, la paura che suscitavano i suoi interrogatori portavano i congiurati alla confessione piena, da sin dal primo incontro col poliziotto. Besini usava, senz’altro, sia le lusinghe che le minacce. Lusingava i catturati con la promessa del perdono ducale, li minacciava con le privazioni fisiche ed il carcere duro. Uno dei carceri peggiori era quello del forte di Rubiera. Secondo Lolli “le spontanee confessioni del Sanguinetti, del Sacchi e di qualcun altro fecero balenare il nome dell’Andreoli”.
Gli arresti di diciannove Carbonari furono eseguiti il 26 febbraio del 1822.
Il carcerato Manzotti confessò e compromise molti sin da subito; le privazioni e la probabile somministrazione di una sostanza stupefacente, l’atropa belladonna un’erba allucinogena, lo resero per un periodo pazzo. Il Comandante del forte di Rubiera si lamentò che il prigioniero, in preda al delirio, urlava giorno e notte e tale era il disturbo al borgo che ne chiese il trasferimento ad altro carcere. Il 25 marzo 1823 il duca rassicurò il detenuto che le sue confessioni lo avrebbero salvato da una dura sentenza. E così fu. Manzotti stilò un memoriale con cui tracciò la storia della Carboneria e dichiarò di aver finto, a Rubiera, la pazzia, ottenendo così una pena mite.
Il duca scriveva in quei giorni (il carteggio va dal 17 al 23 aprile del 1822) alla cugina, la duchessa di Parma invitandola ad adottare i suoi stessi metodi forti nei confronti dei cospiratori del suo regno. I funzionari di Maria Luigia e lei stessa rispondevano, gentilissimi, che nel loro ducato regnava l’ordine e che le prove a carico dei soggetti da lui indicati non erano sufficienti. Ci volle il contestuale intervento dell’imperatore Francesco I per indurre i Parmigiani ai primi arresti.
Il Tribunale Statario di Rubiera
Il 14 marzo 1821 fu istituito il Tribunale Statario di Rubiera per giudicare i “rei di delitti atroci e atrocissimi”, in pratica i dissidenti politici. Tra i reati peggiori quello di Lesa Maestà. Francesco IV derogava così “da ogni legge precedente contraria”, sospendendo il “diritto del Foro” in vigore negli Stati Estensi: la possibilità, cioè, per gli ecclesiastici, di essere giudicati da un loro tribunale (un concordato in tal senso tra Modena e Roma fu firmato solo nel 1841).
Così si legge nel decreto: “Vogliamo che a questo Tribunale Statario straordinario siano sottoposti per i contemplati capi di delitto delegati alla sua cognizione, tutti indistintamente i prevenuti, qualunque essi siano, ancorché tali che per le precedenti nostre leggi godessero benefizio di Foro…Togliendo noi con la presente…Ogni benefizio di Foro per i suddetti titoli di reato…” Con ciò impediva che l’Andreoli, pur essendo sacerdote, godesse del giudizio del Tribunale ecclesiastico, che per altro non dava particolari privilegi ai sacerdoti, se non quello di essere giudicati da ecclesiastici, per poi, se riconosciuto reo, essere affidati alla giustizia ordinaria. Francesco era profondamente cattolico e devoto, ma volle così essere certo del risultato. Aveva scelto come giudici dello Statario suoi uomini fidatissimi.
Nel 1841 riconoscerà di aver “violato i diritti della Chiesa e di non avere rettamente legiferato”. Il tribunale giudicava in tempi rapidissimi la ribellione, l’alto tradimento, la lesa maestà, l’aggressione, l’assassinio e l’incendio. La morte era data con mannaia azionata dalla ghigliottina (qualcosa di rivoluzionario il sovrano aveva mantenuto), ma anche con il ripristino dell’appensione alla forca, considerata un supplizio più crudele. Era previsto l’ergastolo o il carcere da 3 a 30 anni, il pagamento delle spese e la confisca dei beni. La sentenza emessa da tre giudici, un procuratore fiscale (pubblico ministero) e più cancellieri, era definitiva. Non esisteva appello. Essa era rivedibile dal duca, se conteneva condanne a morte. Il tribunale si trasferiva, in un primo momento, dove il delitto era stato commesso. In realtà, a parte alcuni interrogatori iniziali, ebbe sede a Rubiera.
Francesco IV d’Asburgo d’Este
Figlio dell’Arciduca Ferdinando di Lorena e di Maria Beatrice Ricciarda d’Este Cybo, figlia del duca di Modena Ercole III, Francesco era nato a Milano nel 1779 ed era cresciuto, sin da bambino, educato all’odio nei confronti di Napoleone e delle idee della Rivoluzione francese: Maria Antonietta era sua zia e Maria Luisa, futura duchessa di Parma, sarebbe dovuta diventare la sua sposa, se Metternich non l’avesse concessa a Napoleone. Non si era mai dimenticato delle fughe della sua famiglia prima da Milano, poi da Vienna ed era intenzionato, essendo molto ambizioso ed essendo divenuto sovrano di Modena (1814), ad applicare perfettamente le regole di rigido governo conservatore che la Restaurazione gli aveva concesso. Modena aveva attraversato, durante il periodo napoleonico, momenti difficili, con continui passaggi da un regime all’altro. Si apprestava a divenire ora e lo sarebbe stata per parecchi anni, un caposaldo degli antichi regimi. Francesco aveva presto rinunciato al progetto del 1810 di fondare un Regno Italico, favorendosi anche col suo matrimonio con la figlia del re di Sardegna e Piemonte, Vittorio Emanuele I, al cui trono ambiva. La fuga da Modena per il passaggio di Gioacchino Murat nel 1815, rinsaldò le sue intenzioni di restaurazione. Una volta tornato ripristinò il Codice Estense del 1771 e cancellò quasi tutte le leggi napoleoniche. La corte, la cui vita tornava ad essere scandita dall’antico, rigido cerimoniale, riprendeva il suo ruolo ed il sovrano ritornava ad avere poteri assoluti, al vertice di una piramide sociale di tipo feudale. Gli amministratori del periodo napoleonico furono emarginati e furono sostituiti dagli esponenti delle antiche famiglie nobili che da secoli avevano governato con gli Estensi, col favore di provvedimenti di legge che ne difendevano le proprietà terriere. Esecutori delle volontà del sovrano più che collaboratori, amici fidati, a cui il sovrano si dichiara, negli oltre 12000 documenti chirografi che ci ha lasciato, “suo affezionatissimo Francesco”. Fu quello di Francesco IV un governo paternalistico, nel quale il sovrano decideva su tutte le materie, anche le più banali, di volta in volta, con ampi poteri discrezionali anche in deroga alle leggi; durante le carestie pagava personalmente le importazioni di grano per fare il pane e secondo Metternich governò “…piuttosto come un uomo ricco, un proprietario, un economista, che come un sovrano”. Fu uno strenuo nemico delle idee democratiche vagheggiate delle sette segrete internazionali e locali. Divenne paladino della Restaurazione ai congressi della Santa Alleanza, provocando l’intervento della stessa a repressione dei moti nel Regno delle Due Sicilie del ‘21. Favorì l’istruzione ai bassi livelli, affidandola ai Gesuiti e ad altri ordini religiosi, il cui ruolo nella gestione della cosa pubblica, si accrebbe nel suo Stato. Provvide al recupero delle opere modenesi sottratte da Napoleone, ma limitò a 12 all’anno gli studenti della facoltà di Giurisprudenza, i più vicini alle scienze politiche ed alle nuove dottrine liberistiche. Chi pensa che il duca avesse una qualche forma di alleanza, poi tradita, con Misley e Menotti nei moti del 1831, al fine di assumere il ruolo di sovrano egemone, probabilmente sbaglia. L’esecuzione di Menotti e di Borelli fu coerente con quanto già deciso a Rubiera dieci anni prima, fu coerente con la sua personalità e con la sua politica, con tutto il suo mondo. Si dice che sul punto di morte volle aprire il suo animo al figlio Francesco V e confidare a lui il rimorso per le condanne a tanti patrioti, ma questi, completamente cieco e politicamente inadeguato, di fronte alla realtà incalzante del Risorgimento, fu lo stesso l’ultimo duca.
Don Giuseppe Andreoli
Nacque a San Possidonio, allora diocesi di Reggio, ora di Carpi, il 7 gennaio 1789, da Luigi Andreoli ed Antonia Jugali. Sin da piccolo, educato personalmente dal parroco del paese, manifestò il desiderio di divenire sacerdote, vocazione che non trovò all’inizio l’appoggio della famiglia. Non potendo i genitori mantenerlo agli studi, fu aiutato finanziariamente dallo zio paterno Don Giovanni Battista Andreoli, arciprete di San Martino in Rio. Scrive allo zio il 3 ottobre 1803 da San Possidonio: “Tutti i miei di casa mi abbandonano ed oltraggiano e mio padre…quel che è peggio non mi vuole in casa…mi raccomando che in qualche modo mi aiuti e mi soccorra…” Lo zio provvide e nel novembre 1811 Giuseppe si iscrisse all’Università di Bologna, presso la facoltà di Fisica e Matematica ai corsi per agrimensore. Visse a Bologna patendo duri sacrifici, avendo a malapena di che vivere, fino al diploma del 1813. Non frequentò il seminario ma divenne, studiando privatamente, sacerdote nell’anno 1817. Fu subito chiamato a Reggio, come precettore di Rettorica dei conti Francesco e Domenico Soliani Raschini e si ricorda che “i giovani conti Soliani di Reggio lo ebbero carissimo”. La famiglia Soliani, aperta alle novità culturali e politiche, teneva un salotto in cui si discuteva liberamente delle idee liberiste e democratiche portate dalla rivoluzione francese. E’ impossibile che lui non partecipasse alle discussioni che lì si tenevano. In questi anni pare stringesse amicizia con alcuni patrioti reggiani, tanto che nel 1820 quando, su raccomandazione dei Soliani, andò ad insegnare al Collegio degli Oblati di Correggio era già iscritto alla Carboneria, tramite Carlo e Giuseppe Fattori di Reggio. Lì insegnava, apprezzato da tutti, Umanità e Retorica. Tenne sempre, nel corso della sua breve vita, un comportamento moralmente irreprensibile. Pare anche che esercitasse una grande influenza sui suoi alunni. Fu dunque politicamente “seduttore della gioventù”, Stando alla sentenza avvicinò alla Carboneria Domenico Galvani, alcuni giovani della Mirandola, Flaminio Lolli, Ippolito Lolli, Giovanni Ragazzi, tutti ventenni laureati, poi anche Cristoforo Belloli.
Siamo nei primi mesi del 1821. In questo periodo “commise qualche imprudenza per loquacità” (Lolli). Così i Soliani lo inserirono alla fine del ’21, nel Collego di Correggio, un po’ lontano dalla città e dal loro palazzo, dove la polizia cominciava a tenerlo d’occhio.
A Correggio, nella notte del 26 febbraio 1822, fu arrestato per ordine di Francesco IV il quale si raccomandò al Commissario di Polizia di Correggio A. Cocchi: “…per un riguardo al carattere di sacerdote, la mandi persona sicura a Correggio, che di sorpresa vada da lui e lo conduca in carrozza immediatamente seco a Modena, dicendo che il governatore di Modena aveva gran premura di parlargli, e non dandogli tempo di nascondere o bruciare carte…sigillando con sigillo del Governo la sua camera…eppoi abbruci questa mia lettera che non deve stare agli atti…” la lettera originale fu bruciata dal Cocchi, ma non prima di averne fatto una copia.
Quella notte il Cocchi penetrò nella stanza del Convitto Nazionale, posta al primo piano a sinistra dell’ingresso e obbligò l’Andreoli a rivestirsi, dato che era già a letto. Il nervosismo di una guardia restò impresso su una mattonella del pavimento colpita da un colpo di sciabola.
Andreoli fu condotto a Reggio, poi da lì a Modena la mattina del 27 febbraio 1822, dove il Governatore marchese Luigi Coccapani, ministro di Buon Governo, ricevutolo nel suo studio del Palazzo comunale lo aggredì, rinfacciandogli i capi d’accusa. Il sacerdote negò la sua partecipazione alla Carboneria.
Passato nelle mani di Besini negò di nuovo. Il Commissario provò a convincerlo a confessare con le buone maniere facendolo trasferire nelle carceri della Vecchia Conforteria, situate all’interno del Palazzo comunale di Modena, più confortevoli rispetto ad altre. Ma pare che lì fosse messo in cella con un altro carcerato, messo a raccogliere le confidenze e fare la spia. Pare che il sacerdote cadesse nell’inganno e si confidasse col finto compagno di sventura. In quel mentre continuavano gli interrogatori del Besini. Agli inizi del mese di maggio del 1822 Besini si fece più aggressivo e rinfacciò le presunte confessioni fatte al compagno di cella, ma Andreoli le negò. Venne portato allora a confrontarsi anche con le dichiarazioni di un certo De Paoli e queste costituiranno le uniche prove trovate nei confronti del nostro. Addirittura anche la polizia sarà cauta nel prenderle in considerazione. De Paoli dichiarerà che Don Adreoli, che lui frequentava ai tempi in cui era precettore a Reggio dai Soliani e con cui era stato visto passeggiare lungo i viali cittadini e a Mirandola, era stato Carbonaro sin da prima di iniziare ad insegnare a Correggio e che aveva indotto il dott. Flaminio Lolli ad aderirvi. Furono esaminate le carte sequestrate al sacerdote: si trovarono nel suo baule indumenti, alcuni diplomi, bozze di prediche ed una minuta di due lettere a Flaminio Lolli, carbonaro della Mirandola. De Paoli dichiarò che l’Anderoli aveva riunioni anche con un giovane conte Grillenzoni di Reggio e con Leone Levi e con un certo Torreggiani.
Tali le prove rimaste, altre furono senz’altro distrutte o portate a Vienna da Modena.
Il 15 maggio 1822 Besini viene assassinato mentre rincasa in via del Taglio a Modena. Il duca è scioccato ed ordina una retata ma il colpevole non salta fuori. Verrà identificato in un certo Morandi, rifugiatosi in Toscana dopo il delitto.
Il tribunale ed il processo di Rubiera
La Rubiera in cui si svolse il processo rispecchiava il clima di repressione e paranoia in cui era caduto il regime ducale. Guardie sulle mura, guarnigioni a presidio del forte, ronde lungo le vie del borgo, quasi in attesa di un pericolo che mai sarebbe potuto giungere da nessuna parte. I prigionieri nel forte non avevano rinforzi esterni da attendere ed in cui sperare. Ma questo clima di artificioso pericolo, voluto e costruito dal duca, faceva parte di una messa in scena. Enfatizzata la pericolosità degli inquisiti, presieduto militarmente il luogo, centro dei suoi Dominj, quasi che sia da Modena che Reggio dovessero vederlo, evocata la possibilità di un attacco esterno in aiuto dei carcerati, Francesco era libero finalmente di aprire il sipario e di muoversi, con i poteri che la Restaurazione gli aveva regalato, rendendo le condanne di Rubiera un esempio per tutti coloro che, nel suo regno, avessero pensato cattivi pensieri.
Don Andreoli resta un personaggio poco noto, timido e taciturno, poiché non ha lasciato opere scritte, né ha compiuto imprese risonanti. Con una coerenza che ci sorprende accettò di morire dando alla causa risorgimentale un esempio a chi venne dopo, con un atto di eroismo silenzioso, ma sconvolgente. Veniva dalla povertà del mondo contadino, abituato da sempre a soffrire in silenzio, si era guadagnato cultura e rispetto, con sacrifici e determinazione. Aveva abbracciato con serenità la speranza che offrivano a gente di umili origini, le sette segrete patriottiche, primi germogli di quella pianta che avrebbe poi portato, pochi anni dopo, alla fioritura del gesto di Ciro Menotti ed ancora dopo al risultato della fuga definitiva degli Estensi dai loro Dominj e molte altre cose ancora. Don Andreoli fu molto noto nell’Ottocento, non perché ci lasciò un programma politico o dichiarazioni, ma per la compostezza con cui affrontò una punizione sproporzionata, la morte da innocente.
A noi la sua morte senza parole, senza dichiarazioni, riportata unicamente dalle incerte testimonianze di chi l’ha vista, resta un mistero ed un esempio di lealtà agli ideali risorgimentali, spinto alle estreme conseguenze.
I Rubieresi furono sconvolti da quel patibolo, le madri portarono per anni i figli sullo spiazzo in cui esso sorse e sulla tomba del martire, posta per tanto tempo nella vecchia chiesa sconsacrata, deponendo fiori e sussurrando preghiere e la città, dove il giovane sacerdote trovò la morte, ne rinnova con deferenza da quel lontano giorno di inizi Ottocento, come fa oggi, il ricordo.
I documenti relativi al processo di Rubiera furono dati alle fiamme, per cercare inutilmente di salvare la reputazione dei suoi protagonisti. Ma questo non bastò. Si salvarono quelli estrapolati dai fascicoli originali per essere utilizzati in altri processi. La morte di don Adreoli e le vite rovinate degli altri congiurati, gettarono in una luce sinistra tutta la vicenda, le prigioni di Rubiera, tutti i protagonisti e le speranze politiche di rinnovamento. Le informazioni raccolte a Rubiera servirono ad altre polizie oltre a quella estense, per controllare i movimenti insurrezionali in Emilia ed in Romagna, per molti anni. La durezza della reazione fu tale che per molto tempo, nessuno provò più a ribellarsi. Il duca aveva apparentemente raggiunto il suo scopo. Permaneva però inalterata nella memoria di tutti i Rubieresi la durezza dei modi e del trattamento riservato al povero Don Andreoli e l’alterigia dei giudici che passeggiavano pieni di superbia, con i loro mantelli svolazzanti, nelle vie del paese. Tale fu la sproporzione tra il reato commesso e la condanna che il duca di Modena non poté non sentire su di sé, col tempo, almeno il giudizio della sua coscienza. Tanto che il suo atteggiamento, andando contro le sue stesse inclinazioni, la sua storia personale, l’educazione ricevuta e a ben guardare tutto sé stesso, divenne più indulgente, dopo il processo di Rubiera, con gli ultimi degli arrestati, ed indusse sé stesso a promettere giudizi miti (andando anche contro la legge) ed infatti tutti confessarono, compresi i cugini di Antonio Panizzi, che, assieme alle confessioni di altri, lo denunciarono e lo fecero arrestare. Ma la responsabilità dell’Estense resta intatta, amplificata dalle successive condanne a Menotti e a Borrelli; essa è innegabile, se si pensa che egli tutto poteva decidere, che la clemenza sarebbe stata possibile ed alla stessa portata della condanna.
Istituito il 14 marzo il Tribunale fu nominato il 14 maggio 1822.
Il Tribunale Statario Straordinario di Rubiera era così composto:
Presidente Avv. Vincenzo Mignani
Giudice Giacomo Mattioli
Giudice Alfonso Toschi
Procuratore Fiscale Felice Fieri
Giudice processante Giulio Vedriani
Cancelliere Giuseppe Verini
Cancelliere Domenico Gilioli
La giuria si riunì per la prima volta a Rubiera il 19 giugno 1822. Il tribunale ratificò quanto deposto dagli imputati in fase istruttoria, questa, in modo del tutto anomalo per i nostri tempi, era stata condotta dal solo Capo della Polizia Besini, senza l’assistenza di altri.
Il giudice Vedriani eccepì che le confessioni già rilasciate dal Besini non fossero valide, poiché estorte non in fase processuale dove sarebbero potute essere modificate o ritrattate e con lusinghe di mitigazioni della pena da parte del duca. La giuria discusse e non trovò indicazioni di comportamento da parte del duca, così decise di ammettere il dibattito solo dopo che gli accusati avessero firmato le dichiarazioni già rese in sede di interrogatorio. Vedriani si dimise lo stesso e fu sostituito dall’avvocato G. B. Barbieri. Nonostante i dubbi di legalità, una parvenza di garanzia sotto alcuni aspetti forse rimase, infatti non furono mai accolte le pene di morte chieste per 42 dei 47 imputati dal Giudice fiscale. Ai delatori furono concesse attenuanti e si ammise che per molti imputati si poteva dubitare che sapessero degli scopi eversivi delle sette di cui facevano parte.
I difensori dovettero essere scelti dagli imputati tra sei Patrocinatori, indicati dal tribunale: Andrea Bettòli, Lodovico Palmieri e Giuseppe Vandelli di Modena, Biagio Borsiglia, Antonio Peri e Giuseppe Viappiani di Reggio.
L’undici settembre 1822 fu emessa la sentenza in due copie una andò alla reggia del Cataio, dove risiedeva Francesco IV e dove fu ratificata ed una venne tenuta nascosta a Rubiera, pubblicata un mese dopo con ratifica ducale.
Gli imputati, prigionieri nel forte e condannati furono 47:
Francesco Conti, Don Giuseppe Andreoli, Prospero Bosi, Sante Conti, Carlo Franceschini, Giovanni Grillenzoni Faloppio, Prospero Pirondi, Giovanni Sidoli, Pietro Umiltà, Giacomo Farioli, Francesco Caronzi, Luigi Peretti, G. Battista Farioli, Biagio Barbieri, Francesco Maranesi, Giuseppe Alberici, Ludovico Moreali, Ippolito Zuccoli, Antonio Pampari, G. Andrea Malagoli, Israele Latis, Francesco Bolognini, Giuseppe Borelli, Pietro Levesque, Domenico Boni, Benedetto Sanguinetti, Antonio Sacchi, Prospero Panisi, Carlo Fattori, Giuseppe Fattori, Flaminio Lolli, Carlo Angelo Lamberti, Cristoforo Belloli, Carlo Zucchi, Antonio Nizzoli, G. Battista Cavandoli, Francesco Morandi, Domenico Gazzadi, Camillo Manzini, Ippolito Lolli, Giovanni Ragazzi, Fortunato Urbini, Fortunato Rossi, Francesco Montanari, Giuseppe Cannonieri, Evandro Carpi, Pietro Zanibelli.
Condotto con un’esagerata scorta di truppe ducali ed imperiali giunte anche dal Lombardo-Veneto, sotto la supervisione dell’ispettore Nicola Artoni all’una di notte, Andreoli giunse in una Rubiera presidiata come ai vecchi tempi, nei quali, fazioni di ogni genere se la contendevano ed essa viveva sempre come fosse in attesa di un assalto. Il tribunale prese sede presso palazzo Sacrati, con alloggi per i giurati. Le udienze di Don Andreoli cominciarono forse il due di luglio, forse dall’undici, data in cui giurò sul Vangelo dell’Arciprete di Rubiera, don Chierici e “sul proprio petto”. Durante il processo non confessò nulla. Ma furono tenuti forse in considerazione i verbali degli interrogatori rilasciati da quel detenuto spia, che era stato messo dal Besini in cella con lui per indurlo a confessare. La maggior parte degli interrogatori degli imputati avvenne dal 26 al 31 agosto. L’onesto avvocato Andrea Bettòli modenese si assunse l’onere di difendere l’Andreoli, protestando di fronte ai magistrati, l’innocenza del suo assistito relativamente al reato di diffusione delle idee carbonare e di proselitismo. Lo attestavano, secondo l’avvocato, la sua discrezione e la sua riservatezza, testimoniata da tutti durante il periodo d’insegnamento a Correggio. In effetti, il difensore tentò coraggiosamente di sminuire il ruolo del sacerdote all’interno dell’organizzazione, arrivando anche a mettere in dubbio il grado di consapevolezza dello stesso rispetto alla gravità dei reati e delle attività politiche dell’organizzazione clandestina.
Nonostante gli sforzi del Bettòli l’undici settembre 1822 fu condannato a morte e dopo un mese il duca confermò la sentenza.
La sentenza del Tribunale:
INVOCATO IL NOME SANTISSIMO DI DIO…REGNANDO FRANCESCO IV D’ESTE DUCA DI MODENA, REGGIO, MIRANDOLA, EC. EC. EC. IL TRIBUNALE STATARIO STRAORDINARIO RESIDENTE IN RUBIERA PER GIUDICARE I REI DI LESA MAESTA’ E DI ASSOCIAZIONE ALLE SETTE PROSCRITTE
…ritenuto che l’esistenza in questo Dominj della Sette o Società segrete dei Massoni, degli Adelfi, dei Sublimi Maestri Perfetti e dei Carbonari tendenti ad uno scopo sedizioso è prvata in genere dai risultamenti processuali…ritenuto che chiunque delle prime ha fatto parte non debba venir punito come Reo di Lesa Maestà, se non sulla prova, che ne sapesse il pravo scopo…ritenuto che le Recezioni di nuovi Settarj e l’assistanza alle medesime non sono che qualità aggravanti il delitto della rispettiva aggregazione dei Rei alle Società proscritte…ha condannato ad unanimi Voti i Rei medesimi pei rispettivi loro Delitti, cioè:
…
II ANDREOLI Don GIUSEPPE (confesso) di Luigi, nativo di San Posidonio, domiciliato in Correggio, di anni 31, Professore di Umanità, detenuto e costituito Reo.
1) Perché nella Primavera dell’anno 1820 si fece ascrivere formalmente alla Società dei Carbonari nella Casa dei Dottori Carlo e Giuseppe fratelli Fattori in Reggio.
2) Perché sul finire di Gennajo o sul principio di Febbrajo 1821 nell’accennata Casa Fattori assistette alla Recezione formale di Domenico Galvani Farmacista di San Martino in Rio nella Setta istessa, dopo di averlo indotto ad ascriversi.
3) Perché sulla fine del Carnevale 1821 assistette in casa dei fratelli Fattori alla recezione del Fattore Flaminio Lolli della Mirandola nella Setta dei Carbonari, a cui questi si aggregò ad insinuazione di Lui.
4) Perché sulla metà della Quaresima del 1821 in Casa Fattori assistette alla recezione del giovinetto Ippolito Lolli della Mirandola nella Setta dei Carbonari, alla quale lo aveva prima istigato ad associarsi.
5) Perché nel giorno 29 marzo 1821 assistette parimenti in Casa Fattori alla recezione di Gio. Ragazzi della Mirandola nella Setta medesima, avendovi questi solo pei consigli di Lui partecipato.
Alla Pena della Morte da eseguirsi mediante la Decapitazione, alla confisca dei Beni, ed in tutte le spese.
…
IL TRIBUNALE ISTESSO
…ha decretato, che l’esecuzione medesima debba avvenire nello spazio di terreno di ragione pubblica, che rimane a Ponente di questo forte fra le due Vie, che si diramano dalla strada Emilia di Reggio divergendosi, l’una a mezzogiorno, verso l’ingresso in questo Paese, e l’altra a Levante all’intorno del medesimo, luogo che si è ravvisato a tal uopo conveniente non tanto per la sua vicinanza al forte in cui sono detenuti i Rei, quanto per la necessaria esemplarità, essendo sulla strada postale presso il confine dei territorj di Modena e di Reggio. Ha poi risoluto che questa determinazione sia partecipata al Governo Provinciale di Modena, perché disponga l’occorrente per l’analogo eseguimento, che dovrà aver luogo non più tardi di ventiquattr’ore dopo che conosciutasi la Sovrana volontà intorno alla Sentenza medesima se ne sarà fatta l’opportuna notificazione ai singoli Rei in quella condannati a morte…
ha determinato che attese le circostanze speciali che concorrono a pro dei Condannati… sieno essi raccomandati alla clemenza di S.A.R…così è Rubiera 11 settembre 1822.
Firmati: Mignani, Mattioli, Toschi.
Segnati: Verini, Giglioli.
Il primo processo di Parma. Dopo la sentenza di Rubiera, prima della ratifica di questa da parte del duca d’Este.
Seguirono alla sentenza di Rubiera, i confronti di coloro che lì erano stati condannati con gli accusati di Parma, con cui i primi erano stati in contatto. La preoccupazione del Presidente del Tribunale Statario, Vincenzo Mignani fu quella che essi a Parma non ritrattassero le confessioni rese a Rubiera. A tal fine due dei giudici rubieresi restarono presso il tribunale parmigiano, che teneva i primi interrogatori a Sant’Ilario, a minacciare e far pressione ai condannati di Rubiera. L’atteggiamento ducale e della magistratura parmigiana fu molto più aperto, sereno ed attendo alla salvaguardia dei diritti degli imputati, rispetto a quello di totale chiusura delle magistrature estensi, il cui unico scopo fu quello della salvaguardia del regime ducale dalla dissidenza politica. Il sospetto dei parmigiani che le confessioni rese a Rubiera fossero estorte e viziate da un generale atteggiamento di ostilità, se non addirittura d’illegalità di quella magistratura nei confronti degli imputati, si manifestarono nell’atteggiamento di rigore tenuto nel corso del loro processo e nella sentenza che, infatti, dispiacque a Francesco IV e a Metternich. Tale fu la considerazione che il processo rubierese si fosse svolto in una condizione d’illegalità, che Parma non avrebbe mai istituito un processo sulla base di quelle confessioni. Furono invece le confessioni di alcuni congiurati milanesi a dare il via a quell’istruttoria, poiché rese forse in circostanze più serene.
La revisione della sentenza fatta dal duca
Tornato da Lussemburgo ai primi di settembre, il duca di Modena si era fermato alla villa del Catajo, nel Padovano e lì ricevette la sentenza portata dall’avvocato Giacomo Mattioli Bertacchini, che ebbe modo, anche, di sperimentare le ire del sovrano. Dei condannati a morte solo due erano presenti, gli altri avevano avuto promesso la grazia del sovrano. Ci pensò un mese e l’undici ottobre emise la sentenza. Al Conti fu concessa la grazia, per i suoi meriti passati nei confronti del ducato. All’Andreoli no, perché aveva negato le colpe per tre volte, per aver sedotto la gioventù e proprio per essere un sacerdote. Francesco aveva il potere di decidere della vita e della morte e decise per la morte.
“…Viste le sentenze definitive pronunciate dal nostro Tribunale Statario Straordinario residente in Rubiera, specialmente da noi delegato a giudicare sommariamente ed in unica istanza dei delitti di Lesa Maestà e di aderenza alle Sette ed Associazioni segrete che sotto qualsiasi nome tendono allo scopo di sovertire l’ordine dello stabilito legittimo Governo contro li seguenti individui:
1) Don Andreoli Giuseppe…
volendo noi per l’una parte dar luogo a tutto il rigore della Giustizia, ove concorre maggior malizia e pertinaccia nel delitto, e dove i delitti son d’un genere da non ammettere riguardo di grazia, per l’altra parte volendo Noi usare di minor rigore verso quelli che, non forzosamente, ma subito da prima confessarono candidamente le loro reità, e somministrarono lumi, ed indizj utili e verificati alla Giustizia, mostrando con ciò il loro pentimento, e la volontà di riparare il loro fallo in quanto fu loro possibile in quelle circostanze, come anche volendo Noi usare un qualche riguardo ai più giovani, e che sembrano essere sedotti da altri, e strascinati nei delitti poco a poco quasi senza accorgersene, e che con pronte e sincere convinzioni confermano il loro pentimento: Decretiamo quanto segue:
…
3° Confermiamo la Pena di Morte inflitta dal Tribunale Statario al detenuto:
Don Giuseppe Andreoli Sacerdote, per essere non solo reo convinto e confesso di delitti, per cui fu da noi espressamente comminata la pena di Morte, ma per essere di più stato seduttore della gioventù, e più reo per la sua qualità di Sacerdote e di Professore, delle quali abusò per sedurre la gioventù, ed attirarla nella Società de’ Carbonari, a cui egli apparteneva. Finalmente per avergli Noi, in considerazione della sua qualità di Sacerdote…”
Francesco
Don Andreoli fu dunque l’unico ad essere condannato a morte, il duca non perdonò nessuno, confermò la pena a contumaci e a coloro che non avevano confessato; solo due dei nove condannati a morte erano prigionieri, al Conti fu risparmiata la vita per “aver coadiuvato l’armata austriaca e de’ suoi alleati nel prender possesso degli stati Estensi”. Confermava la condanna a morte dell’Andreoli “…per essere stato seduttore della gioventù e più reo per la sua qualità di sacerdote e di professore della quale si è abusato per attirare la gioventù nella società dei Carbonari, e più per non aver confessato che quando si trovò convinto dalle molteplici prove che la giustizia aveva contro di lui…”
Il vescovo di Reggio, monsignor Ficarelli, venuto a conoscenza della sentenza il 14 ottobre, aveva chiesto al duca la grazia per il sacerdote, recandosi a Verona al palazzo della Gran Guardia dove egli si trovava, poi, vedendo che non l’avrebbe ottenuta si rifiutò di sconsacrarlo, cosa che avrebbe fatto, invece, su sua delega il vescovo di Carpi monsignor Cattani (che forse gli doveva qualche favore) il 16 ottobre, ancor prima che da Roma giungesse il permesso, presentandosi al presidente del Tribunale con l’arciprete don Filippo Giacomo Chierici. Andreoli conoscerà solo dopo alcune ore dalla sconsacrazione di essere stato condannato a morte. Egli non si aspettava una condanna così severa. Possiamo immaginare quale fosse l’animo di don Filippo Chierici, parroco di Rubiera, che pochi anni prima aveva salvato la vita al Mignani, condannato a morte dal generale Macdonald, che ora da Presidente del Tribunale Statario di Rubiera dimenticava, ingrato, di ricambiare la pietà che con lui era stata usata.
L’esecuzione
Nella notte tra il 17 ed il 18 giugno 1822 Andreoli era stato trasferito, in pompa magna, scortato da due battaglioni di Austriaci e da sentinelle lungo tutto il tragitto, a Rubiera e lì rinchiuso nella terribile cella della Carandina, poi nella migliore prigione del Duca Ercole, sottoposto al giudizio del Tribunale Statario e condannato. Di quanto successe durante nulla si sa, se non che le sedute conclusive del processo si tennero dal 26 al 31 di agosto.
Ascoltò la sentenza nella sua cella, secondo alcuni restò tranquillo, mentre secondo altri svenne; ringraziò il Signore che nessun altro sarebbe stato giustiziato e si tagliò da solo i capelli. L’ultima notte la passò pregando e piangendo, col conforto del parroco di Rubiera e di un frate cappuccino. C’era all’interno del forte un piccolo oratorio detto della “Conforteria del morente”, in cui fu condotto per le ultime preghiere. Ecco la descrizione del momento fatale dell’esecuzione dal foglio pubblicato nel 1922, nel centenario della morte, scritto da Rodolfo Romoli, testimone dell’evento. La giovane età che il Romoli aveva a quel tempo fa presupporre che suo padre, che lo accompagnava, gli avesse descritto successivamente la scena. Si tratta al contempo di una testimonianza preziosa e di un brano di letteratura, nel quale l’esattezza di ciò che accadde, lascia il posto all’emozione. Tanto è vero che il Romoli nelle sue memorie descrive in modo diverso la scena ed ammette che troppo spaventato, benché si trovasse a poca distanza dal palco, non vide quasi nulla.
17/10/22
“Nella notte frattanto furono mandate nuove truppe di fanti e di cavalli, i quali, a pubblico spavento, stettero tutta la notte in armi, occupando i portici, la Rocca e le porte del paese; e nella notte istessa sorse l’infame palco del supplizio nel trivio a portata della Rocca…
sorse il giorno fatale che doveva esser l’ultimo per il povero Andreoli. Sereno e splendido era il cielo, ma triste e smarrita la vita del paese. Le truppe cominciavano a prendere i posti designati e grossa mano di fanti e di cavalli chiusero gli sbocchi delle tre strade che confluivano in quel punto e circondavano l’infame palco a raddoppiate fila. Frattanto tutti i cuori battevano in aspettazione della grazia, che si credeva non negata al Vescovo che era corso fino al Catajo ad implorarla, ma il tempo passava la grazia non comparve, ché fu negata dal crudele Francesco IV e l’ora sovrastava della compassionevole fine…
Erano le 11 e mezza circa del giorno, quando lo squillo acuto e stridente cominciò il funebre rintocco dell’agonia ed il segno di partenza dal forte del funebre corteo. Deserto e mestamente squallido era il piazzale che dalla rocca mette alla porta a Reggio. Ivi regnava il silenzio come da cimitero, solo qualche gruppo di mesti e smarriti accorrenti al doloroso spettacolo, si vedevano sulla cortina che congiunge la porta e il bastione. Ancor fanciulletto e inconscio vidi silente e spaventato quell’orribile apparecchio e ancora mi suona all’orecchio quello squillo ferale. Vidi uscire dal forte il paziente sostenuto a braccio dall’Arciprete e da un venerando cappuccino, in abito secolare di rigato, con benda che gli copriva il volto. Il massaro Rosa dice che, sebbene il paziente fosse bendato, egli fu fatto entrare nel forno ora dei Ferioli, [lì di fianco al forno era stata appoggiata la bara] perché l’Andreoli non lo vedesse; procedeva lento, vacillante e come a scosse sostenuto a braccia…
i Confratelli [della Ssma Annunziata, non nel testo] colla croce velata procedevano mesti bisbigliando interrotta la prece degli agonizzanti…
rammento il mettersi in armi dei soldati all’arrivo del condannato. Ricordo lo strepito infernale dei tamburi quando l’infelice montò in palco; veggo ancor quel teschio sanguinoso mostrato dal boia non al popolo, ma ai soldati. Mi suona confusa nell’anima la voce del Chierici che disse parole di dolore sulla miseranda catastrofe; e soprattutto l’improvviso temporale che, come maledizione di Dio, di repente successe al sereno della giornata. Fu levato il cadavere e fu dalla Confraternita portato nella chiesa vecchia, ove fu seppellito”.
Alle ore 11 del 17 ottobre 1822, l’ispettore di polizia Lolli fa suonare la campana dell’agonia e Don Andeoli si lascia tagliare la camicia intorno al collo. Mentre si accinge ad uscire dal forte, una guardia si rende conto che è ancora presto per salire sul patibolo. Il giovane non vuole rientrare nella cella e si siede su un muretto di fianco alla porta di Reggio e lì attende l’ora fatale, recitando il miserere. Sul patibolo sono disposti sette cartelli con i nomi degli altri condannati a morte, ma contumaci. Il boia era stato chiamato da Brescia ed era un professionista piuttosto costoso.
Alle ore 12 e un quarto è quindi condotto in catene al patibolo ad ovest del forte. E’ accompagnato sulle scale da Don Camurri e Don Baraldi, modenesi e da Don Chierici, il parroco di Rubiera. Subito rifiuta la benda per coprirsi gli occhi, poi la accetta. Raggiunta la scaletta con cui si sale alla ghigliottina i preti lo lasciano ed è affiancato da due galeotti di Modena, vestiti in tela bruna e incatenati che lo sdraiano supino sulla tavola della ghigliottina. Più che stendercisi vi s’abbandona, tanto sotto al macchinario che la lama gli taglia anche un pezzo di osso dell’omero della spalla.
Cade la mannaia e la testa rotola in un cesto di ferro. Il boia la solleva per i capelli che erano di color castano chiaro e, tenendo premuta una spugna sotto, la mostra ai soldati ed al popolo. Il palco, insanguinato dal tronco del corpo è ripulito dall’acqua di un violento ed improvviso acquazzone che en dilava via il sangue. Pare morisse dicendo "Cupio dissolvi et esse cum Cristo".
Il temporale improvviso manifesta, secondo i cronachisti superstiziosi dell’epoca, la collera divina ed un successivo raggio di sole accompagna l’ascesa al cielo dell’anima del giovane.
Don Chierici, mentre il corpo ancora giace sul patibolo prende la parola, declamando il coraggio cristiano di Don Andreoli, che era morto col nome di Cristo sulle labbra. Poi il corpo e la testa sono fatti precipitare dentro una botola, sotto il palco e lì sistemati in una bara, che viene affidata ai Confratelli dell’Annunciata.
Fu sepolto nell’antica chiesa parrocchiale, ormai sconsacrata e ridotta a cimitero (Cimitero vecchio), dietro l’altare maggiore in una tomba detta “degli Angeli” poiché destinata per consuetudine alla sepoltura dei bambini. Fu deposto coi piedi disposti verso est ed il capo reciso tra le gambe. Venne poi riempita la tomba di cocci, sassi e rottami. Nel 1877 fu riesumato e alcune ossa furono poste dentro un contenitore metallico che, alla presenza delle autorità, fu consegnato il 17 ottobre 1887 al Sindaco di San Possidonio. Giace ora al cimitero di quella città, nel sacrario dei caduti per la libertà, dentro un’urna di marmo rinnovata nel 1922, in occasione del centenario della sua morte.
Un po’ di storia di Vincenzo Mignani (presidente della commissione stataria che condannò don Andreoli)
“La commissione stataria che nel 1822 condannò i detenuti nella rocca di Rubiera, era presieduta dal consigliere avvocato Vincenzo Mignani, che colle sue eccentricità reazionarie aveva saputa captivarsi la grazia e la confidenza di Francesco IV, fino a rendersi strumento temuto di sue crudeltà. Ai primi rumori dell’armate francesi calate nella Lombardia, e invadenti l’Emilia, i reggiani proclivi a novità e facili all’entusiasmo, si fecero istigatori dei mutamenti a preparare il governo della repubblica, che lo straniero ci portava in dono sulla punta delle baionette.
Alcuni di essi fra i più calorosi corsero a Rubiera per ivi alzare l’albero della libertà e tentarono gli animi dei Terrazzani per averli compagni e aiuto all’impresa. Ma il Mignani che era sindaco e vicegerente del luogo, e nemico giurato delle novità e dei novatori, incitò la sbiraglia contro i malvenuti, così che presi ad archibugiate furono costretti a fuga precipitosa.
Dopo pochi giorni arrivava l’avvanguardia de’ Francesi preceduta dal commissario Garray, e il Mignani fatto di necessità virtù, volle inalberato il simbolo della libertà, e con ipocrito proclama accolse a festa il commissario di Francia, promettendo, “…lealtà nell’adempimento de’ propri doveri (8 ottobre 1796) …” . Continuava ancora nella carica il Mignani, quando nel 1799 l’armata di Napoli condotta dal Macdonald, accorreva a gran marcia in aiuto delle pericolanti armi francesi, già battute, divise e rotte in vari punti fino a contrarne completa vittoria. Già varcato l’appenino, le prime colonne tenevano il piano; già alla sparpagliata come di chi procede in guardia, cominciavano a mostrasi gli avvisatori; quando il Mignani chiamate e riunite le milizie di campagna persuase essere soldati sbandati, dispersi e disertori, la spinse ad incontrarli e batterli. Difatto le milizie fatto nodo alla testa del pedagno spinse i più arrischiati a passare il torrente per cominciare la caccia dei pochi che si erano mostrati nella contea. Al rumore delle prime benché sparse e rare fucilate dei nostri, ingrossarono di accorsi e dove prima si vedeva un soldato se ne mostrò un drappello: col numero cresceva il pericolo, si che i nostri ripassarono il Tresinaro e tentarono di tener testa ed impedire il guado del torrente ai soldati creduti disertori. Quivi succedè uno scambio di fucilate; dei nostri ne restarono tre uccisi davanti all’oratorio a capo del Pedagno [Oratorio di San Rocco?], Ripiegarono i nostri cercando salvezza nel paese ove portarono lo scompiglio e lo sgomento. Ma il Mignani, visto il pericolo fatto maggiore dalla tentata resistenza, fè dare nelle campane, chiamò il popolo all’armi, chiuse ed afforzò le porte e si decise alla difesa del paese contro questo avvanzo di mascalzoni. Ma ingrossati i Francesi che, tutt’altro che sbandati, formavano la testa dell’armata, avvicinatesi al paese entrarono da nemici e vi diedero il sacco, imprigionando il Mignani come promotore anzi autore della tentata reazione. Fu tosto riunito un consiglio di guerra per giudicare il Mignani, e sul tamburo fu condannato alla fucilazione. Già pronte erano le armi per la esecuzione, quando giunto il Macdonald, volle l’arciprete don Chierici, chiamato a confortare ed assistere il condannato, invocare grazia e colla sorella del disgraziato si presentò al generale. Irritato dalla reazione che gli aveva attraversato il camino, non si mostrò troppo facile alle parole del buon prete, ma vista la sorella, tramortita per accesso epilettico mosso dal dolore e dalla disperazione, ascoltando la voce dell’umanità graziò il Mignani, colle memorande parole: “Prete ti la[scio] la vita di quell’uomo, ma avrai a pentirti di aver salvato un tristo malvagio”. Terribili parole di cui doveva presto ricordarsi il povero arciprete. Fu rimosso di carica il Mignani, il quale inosservato e disprezzato attraversò in vita privata il regno napoleonico, finché coll’instaurazione della casa Estense riprese carriera facendosi largo fra i più esagerati reazionari. Troviamo quindi il Mignani presidente della commissione stataria nel 1822. Fatto cieco strumento alla ferocia di Francesco d’Austria, e quivi dimentico di avere subita una condanna di morte per reazione, non tremava di pronunziarla contro un infelice reo solo di intenzione. Il buon arciprete non valse a persuadere mitezza e umanità di giudizi. Eppure chi pregava gli aveva salvata la vita in quei momenti pericolosi e terribili a quello stesso che per lui intercedeva; eppure il debito che lo legava all’arciprete, lo obligava, salva la giustizia, ad ascoltare la voce del suo salvatore. Per cui ascoltata la condanna del povero Andreoli ebbe a rimproverare al Mignani le predizioni avverate del Mac Donald: “Ricada sopra di te o Mignani il sangue della vittima innocente”. Tali erano gli uomini di fiducia e gli strumenti di tirannide dell’austriaco Francesco ricordato per atti di ingiustizia e di crudeltà.”
Rodolfo Romoli “Memorie storiche”