Introduzione storica
Il ‘700 è un secolo di crisi economiche, che avevano radici lontane. L’assetto proprietario del settore agricolo fu caratterizzato, tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600, da una progressiva concentrazione delle terre nelle mani di pochi latifondisti, fenomeno che secondo gli storici aveva posto le basi per la crisi economica dei secoli successivi. Tra ‘600 e ‘700 diminuì il numero dei proprietari di terra, questa si concentrò nelle mani dei nobili e i poderi più piccoli si ingrandirono, lasciando senza lavoro un gran numero di contadini e mezzadri, ridotti in povertà. Inoltre i vincoli feudali immobilizzavano ogni possibilità di fare commercio delle terre, che, detenute nelle mani di pochi, non subivano miglioramenti né investimenti. Quindi la crisi dell’agricoltura, combinata con la crisi dell’artigianato avevano ingrossato a dismisura il numero dei poveri nei Domini Estensi. Alla fine del ‘700 oltre il 35% dei Reggiani è povero, così come lo è oltre il 28% dei Modenesi. La povertà divenne un problema di mantenimento dell’ordine sociale.
A partire dal 1754 e fino al 1768 si moltiplicarono le grida ducali che vietavano la questua. Nel 1753 si era realizzato a Modena un Grande Ospedale, davanti alla chiesa di Sant’Agostino, prima un’ala per i militari, quella a destra, poi una per i poveri malati, a sinistra, chiuse a tenaglia. Già in quegli anni il duca Francesco III pensava ad un Grande Albergo per i poveri, ma sino al 1764 questo non sarebbe stato realizzato. Pensava alla realizzazione concreta della politica del renfermement, già applicata in Europa e in Italia da quasi tutti gli Stati, pensava cioè alla raccolta e custodia dei poveri in un luogo deputato alla loro permanente accoglienza, in cui si attuassero politiche di loro avviamento al lavoro. Le teorie di Ludovico Antonio Muratori sull’agricoltura e sulle misere condizioni dei contadini, rapportate agli ingiustificati privilegi dei nobili, influenzarono non poco l’opinione del duca.
Settecento estense, il “vistoso secolo de’ poveri”
“Nel ducato di Modena le strade sono infestate; è impossibile fermarsi a cambiare i cavalli senza vedersi attorniati da questa gentaglia, flagello di ogni Stato incivilito, vergogna dei governi moderni” così scrive un viaggiatore francese nel 1793. Giuseppe Gorani descrive al suo arrivo a Modena nel 1780 l’assalto di “legioni di mendicanti”. Il fenomeno del pauperismo che caratterizza ed assilla il Settecento estense è ben documentato. L’economia ristagna, le difficoltà sono generalizzate, la proprietà agricola si era concentrata nel corso del ‘600 nelle mani dei nobili che la gestivano senza investire e con metodi antiquati. Così la perdita della terra da parte dei piccoli proprietari terrieri aveva ridotto in miseria molte famiglie, mentre anche l’artigianato languiva. La mezzadria conobbe nel corso del ‘700 una forte crisi e i contadini non riuscivano neppure a trarre occasioni di guadagno offrendosi come braccianti.
Le teorie di Ludovico Antonio Muratori , che riconducevano i problemi economici dello Stato Estense alla concentrazione immobile delle terre agricole nelle mani di pochi, nei diffusi privilegi feudali e nella mancanza di un artigianato diffuso, non bastarono a migliorare la situazione, così come non fu sufficiente l’esempio delle sue iniziative personali, come la creazione della Compagnia della carità per alleviare la povertà nella sua parrocchia di Santa Maria della Pomposa. La carità non sarebbe bastata secondo l’intellettuale vignolese se non fosse stata accompagnata dal buon governo. Quindi negli alberghi si doveva insegnare un mestiere ai poveri, perché il loro semplice sostentamento non li avrebbe spinti a migliorare la propria condizione, sapendo di poter contare sulla carità e avrebbe causato l’aumento del loro numero.
La decadenza di commercio e manifattura era già un problema antico nel ‘700. L’esistenza di contratti che impedivano la compravendita dei terreni agricoli come il fedecommesso o la manomorta, bloccavano l’iniziativa imprenditoriale e la circolazione della ricchezza. Occorrevano urgenti riforme. Il governo di Francesco III fu teso all’eliminazione di antiche leggi, così come successe col sistema di dazi che rallentavano gli scambi col Lombardo-Veneto, vista la vicinanza del duca alla politica milanese e imperiale in genere. Anche l’istruzione superiore ebbe un impulso. In funzione dal 1752 al 1772 l’Università di Reggio fu aperta ai figli della borghesia e dei professionisti reggiani che non potevano frequentare le scuole dei nobili come il Collegio San Carlo di Modena. Il successo della scuola fu notevole, anche perché erano state individuate tra le cause della crisi dell’agricoltura la mancanza di divulgazione delle nuove tecnologie e delle innovative tecniche di coltivazione, obiettivo della nuova scuola.
Ma la politica del renfermement non diede evidentemente i frutti sperati. Dopo oltre vent’anni dall’apertura del Grande Albergo dei Poveri, nel 1788, sette membri del Consiglio Comunale di Modena furono chiamati a costituire una Commissione d’inchiesta che affrontasse il problema della mendicità. La commissione definì quello che si stava concludendo il “vistoso secolo de’ poveri”. L’attività del Magistrato per il commercio e l’agricoltura, in essere ormai da quattro anni, non era servita a molto. Mentre i poveri delle campagne godevano del favore delle autorità, perché erano anche contadini, persone che quindi avevano un lavoro, ma, che erano costretti da contratti capestro a dare il meglio del raccolto al padrone e non riuscivano a trarre sufficiente sostentamento per loro stessi e le loro famiglie, quegli stessi commissari deploravano con forza gli oziosi di città che si sdraiavano sotto i portici a chiedere l’elemosina e la spendevano poi in osteria. Nonostante ciò l’ospitale di Modena provvedeva solo a questi ultimi, per quelli delle campagne nulla si faceva. L’Ospitale di Rubiera era chiuso, al tempo della relazione della commissione comunale già da ventitre anni. Solo nuovi investimenti nell’agricoltura avrebbero potuto salvare la situazione, così come un maggior grado d’istruzione e un impulso alle attività artigianali. Nel 1765 un’altra indagine ducale aveva rilevato lo sfascio della tradizionale famiglia mezzadrile, che tendeva a dividersi per litigi interni di natura economica, dovuti agli scarsi raccolti e ai contrasti per la loro spartizione, per gli eccessivi oneri che gravano sui rustici e anche per gli obblighi di leva che avevano sfibrato nelle guerre di successione la forza lavoro maschile.
L’Albergo dei Poveri di Modena si trasformò, secondo quanto raccomandato dal Muratori in Albergo delle Arti, dove si lavorano al grezzo lana e cotone, prodotti di scarso valore. Mancavano però le manifatture per offrire prodotti finiti, quelli che avrebbero apportato un maggiore valore aggiunto e questo rese in parte vani gli sforzi. Tra le riforme di Francesco III ci fu la riduzione delle esenzioni fiscali di cui godevano clero e nobili, per alleviare le perdite subite e la carenza di denaro delle casse statali, esaurite dalle guerre di successione della prima metà del secolo. Quello che sarebbe avvenuto in epoca napoleonica fu dunque in parte anticipato in epoca ducale: soppressione di monasteri e chiese con relative rendite. Tutto incamerato dal ducato. Anche le Opere Pie, che gestivano fondi privati spesso in modo irrazionale e clientelare (l’Ospitale di Rubiera non fu esente da questi problemi) vennero ricondotte ad un sistema di organizzazione statale pubblica. Uno dei mezzi di controllo economico sulle parti sociali che sopravvivevano grazie a privilegi e monopoli, fu, ad esempio, l’istituzione di una sorta di esame di Stato per gli aspiranti artigiani. L’iscrizione ad un’Arte fu subordinata al superamento di un esame governativo che stabiliva il livello di abilità dell’aspirante.
Fabrizio Ori
Ufficio Cultura, Archivio, Biblioteca
Rubiera, lì marzo 2016
I giorni in una tenuta agricola del Settecento.
La Rubiera del ‘700 è un paese povero . Pochi gli abitanti: a fine secolo tutto il territorio ne conta 3090; verso il 1785 Don Silvetti conta 506 anime in paese e 134 fochi, cioè famiglie. Mentre comprese le frazioni erano 1014 anime e 203 fochi. Al sabato l’Ospitale eroga un’elemosina, nel 1752 vennero distribuiti ai poveri ogni settimana 108 pani a 55 soggetti. A 26 poveri una carità non definita.
Quelli di mezzadria erano i contratti usati dall’Ospitale per gestire le possessioni, cioè le tenute agricole, le varie aziende agricole di cui era in possesso. Questo era un contratto che comportava la divisione a metà tra il padrone della tenuta, in questo caso l’Ospitale detto anche parte dominicale o patronale e l’affittuario o coltivatore o parte rusticale, dei prodotti e degli utili del lavoro agricolo e di allevamento (detti capitali) dell’azienda agricola che nel caso dell’Ospitale era detta appunto Possessione. C’era probabilmente assieme al contratto di mezzadria quello di soccida, ossia la cura non solo di un terreno, ma anche del bestiame. Attualmente tali contratti, vietati dagli anni ’70 del Novecento, sono sostituiti in agricoltura dall’affitto, che incentiva maggiormente i miglioramenti e gli investimenti in agricoltura. Anche allora l’Ospitale dava beni in affitto, le osterie per esempio e i terreni. Il livello, anch’esso utilizzato, era un contratto molto antico di affitto di terreni agricoli. Livello deriva da libello, il supporto cartaceo su cui tali documenti venivano scritti.
Alla fine del ‘700 la mezzadria cadde in crisi, poiché spesso i proprietari preferivano dare le terre in affitto e lasciare ai contadini la preoccupazione di organizzare il lavoro e far rendere i campi. I mezzadri vennero sfrattati dai padroni e secondo le cronache del tempo si aggiravano senza saper dove andare, spesso emigrando in altri Stati come nel mantovano e nel ferrarese. Anche gli ex possedimenti religiosi incamerati dallo Stato estense non furono suddivisi tra molti proprietari, ma furono affittati ai grandi proprietari terrieri. Le riforme dovevano dare il minor incomodo possibile ai padroni.
1706
Alla fine di agosto del 1706, il redattore del bilancio e responsabile dei conti Giovanni Battista Missiroli, mandò col cavallo il portinaio dell’Ospitale Francesco Nocetti a Modena, con l’incarico di portare al conte Amedeo Sacrati che là si trovava, una lettera. A Modena lui e il cavallo dovettero mangiare qualcosa prima di ritornare a Rubiera, la qual cosa dovette avvenire comunque in giornata. Il vitto pagato infatti è uno solo, ma per entrambi, per lui e per in cavallo. Trovandosi là, nella grande città, il messo dovette prendere qualche cosa anche per l’Abate che era ammalato. Forse dei medicinali, più facili da reperire nella capitale. Forse le candele per la messa. Un garzone ebbe l’incarico occasionale, poiché non viene neppure nominato, di condurre un somarello, forse venduto a qualcuno di là, sino a Parma perché vi giungesse sano e salvo. I tempi non erano tranquilli e un somaro era un bene prezioso, mezzo di trasporto e di lavoro. Non risulta però tra le vendite. Il pescivendolo era Sandrino, un pescatore della zona che vendeva regolarmente all’Ospitale pesce fresco d’acqua dolce. Salario mensile di un fattore, il Tavordi, era di 16 Lire. Per la cucina meloni e acquisto di robe non specificate da un bottegaio, il pepe sicuramente. Lo zucchero per gli ammalati. Due erano le lavandaie chiamate a lavare i panni. Un avvenimento resta misterioso: viene dato ad uno sconosciuto per undici giorni un somaro, per colpa di Francesco portinaio e per evitare conseguenze peggiori note a tutti in casa…Ma purtroppo non a noi. Il conte risiede a Modena, così come l’Abate che è ammalato in agosto. Francesco portinaro è relatore di commissioni e lettere. Sono segnati acquisti per gli ammalati di casa, forse si tratta di famigli , ma più probabilmente degli ospiti ricoverati all’ospitale. Si conferma quindi la presenza di ammalati, non si sa quanti, che sono accuditi nell’infermeria del Pio Luogo.
La spesa sostenuta in grappa o acqua vita è sostenuta per fare un dono di fine anno alla guarnigione di stanza all’Ospitale probabilmente lì mandata dal Forte su richiesta delle autorità ospitaliere al fine di difendere il Pio Luogo durante le manovre belliche della guerra di successione spagnola.
Cinque donne passano quattro giorni e anche le notti dobbiamo supporre, a custodire il fieno in campagna, prima che esso venga raccolto e messo al riparo. Si acquista formaggio, uova per gli ammalati e grappa per la Guarnigione o Salva guardia, che forse dimorava presso l’ospitale per difenderlo. Uno di questi soldati riesce a catturare due buoi che, fuggiti dal recinto, stavano rovinando i campi della possessione di Po. All’unico cavallo dell’Ospitale, vengono curati gli zoccoli e messo un ferro nuovo. Viene messo in custodia a pagamento un cavallo della guarnigione. Si vendono tacchini per comperare pece (pegola) e chiodi per riparare le barche del passo di Secchia, voce molto importante del bilancio.
La Domenica Roncaglia, che già era stata chiamata a custodire il fieno fece la bugheda, termine dialettale ancora usato per indicare i lavori di lavanderia, assieme ad altre due colleghe lavandaie. Si tratta probabilmente di personale poco qualificato e bisognoso, a cui venivano occasionalmente affidati lavori di diverso genere. Vendita del vino prelevato col carro dai campi dell’Ospitale. Vengono comprate delle ostie dal Canonico Barozzi per utilizzarle durante le messe nella chiesa e delle candele dai frati cappuccini di San Martino in Rio, per le messe fatte dire nella loro chiesa dai canonici dell’Ospitale. Da là viene ricondotto a casa, a Rubiera del grano. Compare l’acquisto di sementi di meloni dal portinaio Francesco, che forse possedeva un orto o dei campi suoi.
Le ricevute o bolette che attestano le scritture contabili di questi elenchi erano fatture o parcelle, o richieste di pagamento conservati in filo, cioè in filza, che significa che erano letteralmente infilzati con uno spillone che li trapassava facendo passare loro attraverso al centro uno spago che li avrebbe tenuti insieme. In questo modo l’oggetto del documento sarebbe stato facilmente leggibile senza estrarre l’intero documento dal mazzo.
In ottobre un acquisto di sale, una trasferta a Reggio per una commissione per il conte, dal quale si devono ritirare delle lettere e delle spese per l’acquisto di cerchi di ferro per rinforzare delle piccole botti; in cantina si spende per il lavoro di un bottaio, per la riparazione del fondo di un tino. Si acquistano poi delle candele per la messa e per del pesce. Per custodire il fieno vengono chiamate sempre le donne, di cui una montanara.
Nel ‘700 la crisi agricola aveva fatto vacillare gli equilibri economici di molte zone e della classe mezzadrile. Questo aveva comportato una diffusa povertà, anche e di più in Appennino, provocando una migrazione dei montanari verso le città della pianura e la diffusione del bracciantato, sempre precario, insufficientemente pagato e sull’orlo della povertà. Ancora donne al lavoro la Lucretia, la Pasqua, l’Onesta, l’Orsola, la Giovanna e la Domenica.
Il calafatiche era il Mastro d’ascia, falegname specializzato nella fabbricazione del fasciame di legno delle imbarcazioni. Abilissimi e ricercati sapevano modellare il legno dal ceppo, sino alla sua finale funzione nella struttura dell’imbarcazione. Il calafataggio era l’operazione di impermeabilizzazione del fasciame, che avveniva anche con la stoppa o canapa impiastricciate con la pegola, un tipo di pece adatto allo scopo. L’abile Maestro calafato, che diveniva tale dopo ben otto anni di apprendistato, spingeva la stoppa impregnata di pece nelle fessure tra le tavole dello scafo con un mazzuolo detto maglio da calafato per mezzo di uno scalpello detto malabestia. L’ospitale produceva la stoppa e altri derivati dalla canapa, ma non la pegola che andava ad acquistare a Carpi. Le entrate dal pedaggio del passo del fiume Secchia furono in questi anni sempre presenti tra le voci di bilancio. Da qui l’importanza di una costante manutenzione delle imbarcazioni.
Vicino all’osteria del Sole, sulla via Emilia, c’era un fabbro da cui si comperano chiodi per riparare le barche. Ottobre era il mese dedicato alla loro cura alla quale attendono per ben ventidue giorni quattro calafati o maestri d’ascia specializzati nella riparazione delle imbarcazioni. Altre trasferte del portinaio messo a Carpi e del sergente Taini mandato a Bologna a riscuotere crediti e dal conte a Rimini con una lettera.
Ad ottobre si fa macinare un po’ di frumento al mulino, probabilmente quello di Rubiera, i cui edifici ristrutturati esistono ancora nel punto in cui il canale per Carpi incrocia la via Emilia. Il frumento è quello che si è ricavato dalla mondatura, cioè quello che si è recuperato dalla raccolta dei chicchi caduti in terra durante la mietitura. Un fattore paga al marchese Scipione Sacrati il canone per ottemperare a quanto stabilito da un contratto di livello. Quest’ultimo era una tipologia di contratto agrario per la quale un concedente dava una terra in godimento a un ricevente o livellario, per un certo periodo di tempo, a determinate condizioni e dietro un pattuito compenso. Il contratto prese il suo nome dal libello col quale chi desiderava ottenere la concessione della terra faceva la sua petizione. Il concedente doveva mantenere nei suoi diritti il livellario e quest’ultimo doveva migliorare il fondo e pagare un canone. Rileviamo come in quegli anni dovettero coesistere contemporaneamente un marchese e un conte Sacrati.
La mistura o mestura è un miscuglio di frumento e segala seminato, coltivato e raccolto insieme. Le diverse proporzioni dei due facevano distinguere in mistura piccola e grossa. Fu una pratica seminativa fortemente sconsigliata dal F. Gera nel suo “Dizionario di agricoltura…” del 1848, date le diverse caratteristiche dei due grani, che andrebbero seminati non contemporaneamente, ma in mesi dell’anno diversi, così come dovrebbe avvenire per la loro mietitura. Anche il terreno adatto alle due tipologie dovrebbe avere caratteristiche diverse. Il risultato è quindi, secondo il Gera che scrive a metà Ottocento, un misto di prodotti di scarsa qualità. In questo caso infatti la mistura viene data ai porci.
Tornato da Rimini il sergente Taini racconta che il conte Sacrati, patrono dell’Ospitale aveva provveduto ad integrare quanto datogli dal Missiroli per la trasferta, avendo giudicato i due Filippi, moneta d’argento di origine spagnola ma adottata da Milano del valore congetturabile di circa 5 Lire, un anticipo di cassa insufficiente al viaggio e alla permanenza. Il Taini se n’era tornato a casa con un Ducato, moneta ugualmente milanese coniata però in oro, con la raccomandazione di segnarlo in cassa all’Ospitale. Si trattava quindi di un prestito e il conte ne voleva la restituzione…
Il giorno 8 novembre l’incaricato della riscossione, il Signor Battista Forno riceve 514 Lire dall’affittuario Girolamo Messori per la metà dell’affitto della possessione di Bagno: nel territorio di Rubiera (su il Stato di Rubiera) l’Ospitale possiede 514 biolche di terra, affittate a 40 Bolognini la biolca, per un totale di Bolognini 20560 che divisi per 20 fanno 1028 Lire. La metà corrisponde ad un semestre di 1028 Lire.
Si conferma in queste note del novembre 1706 che la moneta utilizzata è la Lira Modenese. Il compilatore contabile deve precisarlo poiché evidentemente manca ancora la standardizzazione delle unità di misura che variavano da una Comunità all’altra e tra una Villa e l’altra all’interno degli Stati Estensi. Le tasse al Comune venivano pagate anche con prodotti della terra, in questo caso un carro di fieno, che è un’unità di misura specifica.
Si acquistano generi alimentari e carta su cui scrivere le lettere. Non esistevano le buste ma era la lettera stessa che veniva piegata in modo che non ne fosse leggibile il contenuto. I lembi venivano poi sigillati con ceralacca. Le lettere più importanti, indirizzate ai membri di casa Sacrati o alle autorità militari venivano affidate al messo che in questo periodo era il portinaio Francesco Nocetti, che partiva a cavallo verso le varie destinazioni dove in quel momento i vari componenti della casata ferrarese si trovavano. Le altre venivano affrancate.
Viene fatto un regalo di due libbre di lana al Sergente Taini, meno di 700 grammi. Le donne che lavorano per l’Ospitale non sono poche, oltre alle lavandaie e alle custodi del fieno che sembrano avere incarichi saltuari c’è una Donna di governo, cioè una Governante. Le Governanti dirigevano la servitù femminile, ma avevano grande influenza sulla gestione della casa, avendo le chiavi delle dispense. In quell’anno la Rezdòra dell’Ospitale è Claudia Terzi. L’Ospitale le deve ancora pagare due stipendi, avendola già pagata in parte con del filo utilizzabile per confezionare tessuti di pregio. Può sembrare strano, ma evidentemente quelle matasse dovevano essere sufficientemente preziose perché la donna le considerasse adeguate a quanto le spettava come compenso per le sue mansioni di Governante. Evidentemente sapeva cosa farsene. All’esattore comunale vengono date le restanti 514 lire dovute per le biolche possedute dall’Ospitale, la prima rata era stata pagata pochi giorni prima di questa, come risulta dalla Carta 9.
A metà novembre l’Ospitale non ha più bisogno di una salvaguardia, di un drappello a sua difesa. La guerra aveva reso necessaria la presenza di una ronda a difesa del Pio luogo. Forse costituita da alcuni militari del Forte, forse da quelli di Carpi, poiché ad entrambi i comandanti si faranno in seguito omaggi e doni.
Conosciamo ora uno ad uno il personale fisso che lavorava nel 1706 all’Ospitale, è indicato col ruolo e il salario percepito. Due le donne, le meno pagate. Enorme la differenza di salario tra le prime due cariche e i lavoranti, il 37% del costo per salari della fameglia, cioè della servitù e del nucleo di lavoratori dell’ente, va al responsabile dei conti. Tra lui e il cappellano Barozzi se ne va il 66,25% della spesa per salariati.
(Carta) 13
Salario del scorso novembre dato alli salariati di casa
1) Giovanni Battista Missiroli lire sesanta, dico 60 –
2) Sig. Don Giovanni Barozzi Capelano lire quarata sei, dico 46 –
3) Antonio Gavordi fatore lire sedici, dico 16 –
4) Francesco Nocetti Portinaro lire dieci, dico 10 –
5) Domenico Biancolini ortolano lire dieci, dico 10 –
6) Matteo Galoni servitore lire sei e bolognini cinque, dico 6 . 5
7) Stefano Olivieri servitore lire sei, dico 6-
8) Claudia Feraguti domina di governo lire cinque, dico 5 –
9) Madalena Cocalini cuciniera lire quatro, dico 4 –
Si recuperano gli apparati della chiesa, dati in prestito ad un’altra di Modena. Si fa il bucato e per questo servono tre lavandaie. Compaiono inoltre altri due servitori e un ortolano, impiegati occasionalmente, oltre all’elenco dei lavoratori fissi. Compaiono spesso salari in sospeso e salari da pagare, segno che probabilmente non sempre c’era disponibilità di cassa sufficiente per poter pagare tutti immediatamente. Sembra che soprattutto la gestione dell’eccellentissimo Abate Paci abbia lasciato un certo numero di debiti in sospeso. Col marescalco e col barbiere ad esempio. Anche col Cappellano Barozzi, persona di riguardo dato il ruolo e lo stipendio, debiti anche per messe dette all’Ospitale, poi si deve denaro ad un oste di Rubiera chiamato Rabito o Rabitti e al portinaio Francesco. L’Abate Paci era vivo nel 1706, poiché il Missiroli chiede al predecessore, che nel 1705 ricopre la carica di “economo” dell’Ospitale, informazioni relativamente al pagamento di una somma dovuta al M.se Scipione Sacrati per una rata relativa ad un contratto di livello che il nobiluomo ha nei confronti dell’Ospitale. Inoltre viene fatta fare un’arma, uno stemma o forse uno stendardo, in ricordo del conte Ippolito Sacrati. Si incarica di ciò il Dottor Zani.
In occasione del Natale del 1706 si fa festa. Si spende per la spongata, dolce reggiano dei giorni invernali. Per spezie, anche piccanti come il rafano e per salsiccia, detta qui salciccia, perché si pensa di più alla sua ciccia e che al sale, pure importantissimo all’epoca, che la conserva e da cui deriva il suo nome. E il miele, sempre per fare dei dolci. Poi mance per il Natale e carne e pesce per i pranzi dei giorni di festa.
(Carta) 17
Dicembre 1706 Adì 23 detto pagai a Rabito oste di Rubiera una lista di cavalcature date per servitio di questo loco al tempo del Signor Abbate lire venti otto e mezzo, dicoCome da ricevuta in fila n.° 50· E più dati al Marescalco lire sei come da ricevuta in filo n.° 51, dico · E più diedi al Barbiere per sua mancia come al solito lire otto e bolognini quindici alla presenza del fatore et altri, dico· E più spesi in forchette sei di ferro lire una, dico· E più in mostarda e vaso e spongata lire cinque e bolognini dicisette, dico· E più spetie di varie sorte e salcicia e carta per le impanate e zafano lire sette e bolognini quatro, dico 28 : 106 –8 : 151 –5 : 177 : -4
Adì 24 detto spesi in un peso di sale lire quatro e bolognini dodeci, dico · Et più in mella et altro compro dal fatore lire una e bolognini quattordici, dico· E più al chiusarolo per sua mancia solita darseli ogni anno a Natale lire otto e bolognini quindici, dico lire 8 : 15· E più speso in pesse lire tre, dico· E più in carne lire nove, dico 4 : 121 : 148 : 153 : -9 : –
Ecco finalmente delle lamentele per il salario non pagato e inadeguato. Le manifesta Matteo Galoni servitore di casa fisso. Il conte gli aveva promesso di più, un salario più alto. Deve integrare l’amministrazione dell’Ospitale, perché si è lamentato. Poi compare la carità di dicembre: ai padri Capuccini di San Martino in Rio, alla povera inferma soprannominata “la luca”, con denaro e fascine di legna anche al sergente Taini. L’esattore comunale Forno ha anche una bottega da cui l’Ospitale compera non si sa quali prodotti.
Compare l’acquisto di pregiati cordicelle di seta per fare dei segnalibro al messale. Mastro Cesare Rugieri ha un credito dal tempo del Paci per lavori fatti all’Ospitale. Ancora debiti dalla gestione Paci: la copiatura da un notaio di Modena di un documento (instrumento). In alcune note compaiono dei bottegai, ma purtroppo non si indica mai di che prodotti vendono.
Tra ottobre e dicembre avviene il grosso della macinatura del grano ad uso interno dell’Ospitale, probabilmente per dare pane agli ospiti e ai poveri. Per sfamare i poveri è specificato che viene anche macinata della mistura, in altra occasione data da mangiare ai porci, poiché si trattava di una miscellanea di grani buoni da soli di scarsa qualità se seminati assieme.
La fava veniva coltivata perché secondo la tradizione attirava su di sé i parassiti delle altre piante. Arricchiva il terreno di azoto e quindi veniva alternata al frumento. Essa era seminata in autunno o in primavera. Qui viene data ai poveri il giorno dei morti, in quel giorno era tradizione dell’Ospitale elargire una consistente elemosina ai poveri e fu questa per molto tempo una forma di carità molto sentita dalla popolazione bisognosa del luogo. “Una universale limosina di pane, vino, fava cotta a gran numero di gente che da ogni lato vi concorre” era una importante tradizione dell’Ospitale di Rubiera il giorno dei morti.
Il 3 novembre 1706 i porci allevati all’Ospitale erano appena sei. Il cavallo era uno solo.
La vezza è una leguminosa che cresce nel frumento, una tipologia di grano. Linneo la chiamò Viciacracca e si arrampica come i piselli. Il Vezzòn è una leguminosa simile al pisello detta da Linneo Ervum Ervilia o Ingrassabue, essendo usata in passato per il bestiame. Pare fosse molto gradita ai piccioni, come appare anche qui.
A settembre si fa la carità ad alcuni lavoranti dell’Ospitale regalando loro vino. Il vino era un vero e proprio alimento in passato, in quanto integrava gli scarsi pasti, con un buon numero di calorie. Conosciamo qui i nomi di alcuni poveri di Rubiera, sono malati, vedove, un cittadino decaduto (le cosiddette persone civili e i nobili che avevano subito un rovescio economico ma che appartenevano per stirpe ad una classe elevata erano detti “poveri vergognosi”). Uomini e donne quasi si equivalgono nel numero. Le donne sono vedove, segno che la perdita del marito aveva coinciso con l’inizio di difficoltà economiche. Potrebbe trattarsi di uomini caduti in guerra.
Vino ai poveri, un po’ di vino al Comandante della Guarnigione del Forte di Rubiera che in occasione del Natale deve essere stato gradito, come lo è ai tempi nostri. Anche i famigli festeggiano col vino, sia a Natale che ad inizio d’anno.
L’Ospitale dava alla Comunità di Rubiera dei prodotti a pagamento di tasse dovute. In questo caso si tratta di 1028 pezzi di legna per il 1706 e in parte per l’anno precedente. Il dovuto era di un pezzo e mezzo per biolca.
Il vino si distingue in vino del cantinino e vino della cantina, ne danno alla canonica di Rubiera e al Comandante delle truppe tedesche di stanza a Carpi, che paga qualche giorno dopo, ma restituisce la botticella. L’Ospitale ne vende a Rabico o Rabito, oste di Rubiera. Il vino bianco viene usato per le messe.
Ecco i danni della guerra di successione spagnola. Il giorno 21 agosto 1706 tre agnelli castrati e altri tredici agnelli nati quello stesso anno furono rubati dai soldati Tedeschi imperiali dalla possessione di Scardovino; ne fece denuncia il mezzadro Francesco Lusvardo. Lo si mandò a Reggio a lamentarsi dal comando di occupazione nel tentativo di recuperarli o di avere un risarcimento, ma non riuscì ad ottenere nulla.
A settembre giunse il mezzadro di Scardovino per l’approvvigionamenti di sementi per le semine della sua possessione. Avrebbe seminato, portandoli fuori dall’ospitale, cesi cioè ceci, cicerchiello, che è un cecio di piccole dimensioni, fave, formento (o frumento o mais o granoturco), ceci rossi e bianchi, la vezza, che è una pianta leguminosa che cresce tra il frumento e produce un grano detto da Linneo Vicia Cracca, rampicante come i piselli. La cicerchia è una leguminosa che cresceva bene nei periodi di siccità, perciò era coltivata nei periodi di carestia, anche se aveva una componente tossica.
Ancora danni di guerra. Il 28 agosto 1706 i cani al seguito dei soldati Tedeschi delle truppe di occupazione azzannarono un animale maschio castrato. Il castrone è di solito un cavallo, ma l’indicazione, tratta dal testo, che i soldati se lo mangiarono fa supporre che si tratti di un animale di taglia minore, forse un agnello. Gli altri animali, nominati nella nota contabile sono infatti agnelli. Essi sono quelli portati dai mezzadri all’Ospitale a pagamento delle rate di mezzadria dovute al Pio Luogo sotto forma di capitali. Vengono definiti infatti per parte dominicale cioè per la parte che spetta al padrone. Poi una vera disgrazia, la morte, probabilmente per malattia, di un bue della possessione di Pontealto. Negli anni successivi del secolo 1727, 1737 e 1745 tre epidemie di afta epizootica colpirono con grave danno il bestiame bovino. Alcuni agnelli come al solito sono uccisi per essere mangiati dalla famiglia.
Macello di animali, due agnelli, uno va alla parte dominicale, cioè al padrone che è l’Ospitale, uno va al mezzadro o parte rusticale. I soldati tedeschi uccidono per loro consumo, probabilmente con l’argomento convincente dell’uso delle armi, sei porcellini allevati nella possessione della Tagliata. Un animale muore di malattia. Probabilmente non viene mangiato, viene segnato come una perdita di capitali. Più oltre, da alcune altre note, pare capire che alcuni animali morti per cause naturali venissero comunque consumati. Continuano le difficoltà legate alla congiuntura economica e politica. Questa volta nell’allevamento, poiché il contabile svela che i Ferrari, mezzadri della possessione di Secchia, nell’anno 1706, non riescono ad allevare più di 16 pecore invece delle 24 dell’anno precedente, poiché Domenico dichiara che il foraggio per far loro passare l’inverno non basterebbe per tante. L’allevamento di pecore del 1706 risulta quindi dimezzato rispetto a quello del 1705.
Nel giugno 1706 vengono vendute foglie di cerfoglio, di strame (sfalci di diverso tipo, come erba ecc.) e di piante di moro e animali, un manzo, vacche e i follicelli per produrre la seta. Prodotti venduti dai mezzadri con registrazione dell’entrata dovuta all’Ospitale. La calligrafia è di Taini, contabile in seguito molto discusso. I folicelli o filugelli sono i bozzoli del baco da seta; la produzione della seta fu in attivo per il ‘500 poi dagli inizi del ‘600 decadde per la chiusura dei mercati francesi, e anche a causa della diffusione del cotone. Gli incentivi statali dati alle poche manifatture rimaste sono dichiarati, alla fine del secolo, nel 1788 e nel 1794, inutili e vengono dirottati sulla produzione di seta grezza, cioè su una fase di semilavorato ancora una volta agricolo. I produttori di seta reagirono investirono in terre, chiudendo le manifatture e gettando sul lastrico centinaia di famiglie reggiane, costrette a chiedere la carità alle Opere Pie.
Questi sono gli ultimi bilanci dell’Ospitale, conservati nell’ultimo volume della serie presa in considerazione da questo lavoro , tutti redatti nel XVIII secolo. Abbiamo solo la parte delle entrate. Impressiona l’estrema variabilità di queste che da un mese all’altro, in relazione all’andamento delle attività agricole e dal loro esito, alla vendita di animali e allo scadere dei contratti di affitto, variano di molto. Il 1733 inizia con “Adì 3 (settembre) mi fu consegnato il maneggio senza un denaro in cassa”.
1734
La guerra di successione polacca causa per una seconda volta la fuga di Rinaldo a Bologna. Francesco Sacrati scrive una lettera al duca, lamentando le miserevoli condizioni in cui versa il Pio Luogo, che risulta gravato da un debito di 14000 lire. Inoltre ad aggravare la situazione i danni di guerra, la rapina dei guadagni dal passo di Secchia, che risultano le uniche entrate, le spese per l’alloggio dei soldati tedeschi feriti. Nei campi i soldati francesi fanno razzia di fieno e i bestiami poiché non hanno di ché nutrirsi. Nell’agosto 1734 Tedeschi e Francesi acquistano uva per le truppe.
1735
Importanti in quest’anno sono le entrate del passo di Secchia che Francesco Sacrati esige dai viaggiatori che passano il fiume. Il Comune di Rubiera acquista materiale edile dall’Ospitale (6 migliara quadrelli). Esisteva forse una fornace nei pressi del complesso o si trattava di materiale di recupero?
1737
Si vendono pietre, probabilmente raccolte in Secchia e malte da Fornace, forse prodotti per l’edilizia derivati dalla molitura della ghiaia del fiume. L’Ospitale aveva quindi una piccola attività di produzione di materiali edili. Oppure riciclava materiale edile da edifici diroccati di sua proprietà, pratica utilizzata anche a seguito della “tagliata” effettuata dal duca Alfonso I con la demolizione dei borghi attorno le mura di Rubiera nel 1523, poi riutilizzati nella costruzione del nuovo Ospitale nel 1531. Si vendono coppi che derivano dalle “maseriche di San Lazzaro”. La guerra ha lasciato danneggiate le case e i manufatti, che ora vengono riparati. L’Ospitale esporta vino sino a Parma. Nel 1736, l’anno prima, anche il Comune di Modena aveva acquistato delle tavelle.
Viene incamerata un’entrata dall’oste del Tarabuso Barigazzi per qualcosa che lui doveva all’Ospitale dal 12 dicembre 1734 per uomini ospitati e truppe estere; manipoli che evidentemente hanno pagato il soggiorno e di cui l’Ospitale riceve ora quanto gli spetta.
La seconda metà del secolo, la pace non servì all’Ospitale per sopravvivere
Nel 1737 muore il duca Rinaldo. Francesco III, suo figlio, eredita i Domini Estensi. L’occupazione delle truppe Austriache e Sarde, in occasione della guerra di successione austriaca causano la fuga di Francesco III a Venezia, dove rimarrà dal 1742 al 1749. I Piemontesi entrano in Reggio con le truppe imperiali e la occupano fino al 1749. In questo periodo l’Ospitale subisce gravi danni di guerra. Siamo nel 1746. Le richieste di risarcimento inoltrate dal Presidente don Giuseppe Merziari al governo di occupazione austriaco di stanza a Modena riguardano i molteplici danni causati dalle truppe austriache alloggiate nella struttura. Quaranta letti rotti, il porto di Secchia rovinato dalla gran quantità di truppe trasbordate, di carri e cavalli, una barca rubata, dieci barcaioli in più, da pagare, impegnati nei lavori di trasloco sulle barche. La dispensa viene saccheggiata, l’edificio subisce danni. Attorno all’Ospitale l’accampamento di truppe provoca danni d’ogni genere. I soldati tagliano gli alberi e le siepi, rovinano i muri dentro e fuori l’edificio, un bue muore spossato dal lavoro, campi e prati calpestati, occorre la calcina per seppellire in un campo adiacente i soldati Austriaci che muoiono e coppi e mattoni per fare stufe per i malati.
Francesco Sacrati si rivela, negli anni successivi un pessimo amministratore, licenzia il Merziari con l’accusa di malversazioni. Quest’ultimo però non accetta passivamente lo sgarbo, sicuro della sua onestà e chiede l’intervento del conte Cristiani, alto funzionario del governo austriaco d’occupazione in Modena, il quale manda un ispettore. Questi non può che constatare l’onestà della gestione Merziari e l’insipienza di quella del Sacrati, così fa interdire il marchese dall’amministrazione del’Ospitale in favore di suo fratello Ottaviano, che reintegra Merziari nelle sue funzioni. L’Ospitale è però molto indebitato, ha perso anche l’antica osteria dell’Aquila d’oro in centro, distrutta da un incendio. Nicola Barozzi che la gestisce non ha i soldi per ricostruirla, sicché è invitato a farlo il Sacrati a spese dell’Ospitale. Alla fine tale spesa si rivela decisamente onerosa, tanto che si parla di vendere l’osteria. In questi ultimi decenni si assiste ad un continuo interferire della famiglia Sacrati nella gestione dell’Ospitale.