Pietre d’inciampo a Rubiera
Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome: Così cita un passo del Talmud. E’ a questo stesso passo che si è ispirato l’artista Gunter Demnig con l’iniziativa delle Pietre d’inciampo.
Ultima modifica 23 agosto 2024
Cosa sono le Pietre d’inciampo?
Sono piccoli blocchi quadrati di pietra di cm 10×10 cm, ricoperti di ottone lucido e posti davanti la porta della casa in cui ha avuto l’ultima residenza un deportato nei campi di sterminio nazisti: ogni blocco ne riporta il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione e la data della morte.
Le Pietre d’inciampo rappresentano un monumento diffuso in tutta Europa utile a tenere viva la Memoria di tutti i deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti che non hanno fatto ritorno alle loro case. Rispetto a qualunque altro monumento dedicato all’Olocausto, le Pietre d’inciampo rappresentano allo stesso tempo una commemorazione personale e un invito alla riflessione proprio nello stesso luogo in cui abitò la vittima dello sterminio dei nazisti e dei loro alleati. In Europa ne sono state installate già oltre 70.000.
Dove sono pietre d’inciampo in Italia?
A Roma nel 2010 furono posate le prime Pietre d’Inciampo e attualmente se ne trovano a Bolzano, Genova, L’Aquila, Livorno, Milano, Reggio Emilia, Siena, Torino, Venezia oltre ad altri numerosi centri minori.
A Reggio Emilia dove sono?
La mappa delle pietre posate nella provincia di Reggio Emilia e più dettagliate informazioni sul progetto a livello provinciale sono consultabili sulla pagina web di Istoreco, inciampa.re.it.
E a Rubiera?
Anche nelle pagine della storia di Rubiera abbiamo incontrato persone a cui dedicare una pietra d’inciampo.
Con deliberazione di Giunta comunale n.158 del 20/12/2021, il Comune di Rubiera ha aderito al progetto Pietre d’inciampo promosso da Istoreco Reggio Emilia – Istituto per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea.
Le persone e le loro storie
Biografia essenziale:
Vito Annovi nasce il 1 Agosto del 1912 a Rubiera (RE). Catturato in Albania col grado di Sergente dell’Esercito Italiano, come prigioniero di guerra dalle forze armate naziste dopo l’Armistizio dell’8 Settembre 1943 (a causa del rifiuto di aderire alla Repubblica Fascista di Salò), fu deportato (in treno fino a Belgrado, poi in nave sul Danubio fino a Vienna, e di nuovo in treno) in un campo di prigionia in Austria per essere impiegato nei lavori forzati. Morì qui il 7 Marzo 1945 per una polmonite a soli 32 anni, pesando appena 40 Kg. Riposa nel Cimitero Militare Italiano di Mathausen.
La storia di Vito Annovi
Il cittadino a cui abbiamo dedicato la seconda pietra d’inciampo rubierese è Vito Annovi.
Annovi Vito, figlio di Aldo (detto Aldino) e Adelina Coppelli, nacque a Rubiera il 1 Agosto 1912.
La famiglia, originaria di Baggiovara (MO), si era trasferita oltre il Secchia l’11 Novembre 1905, giorno di San Martino, nella casa oggi inesistente, di Borghi di Rubiera al civico 24, dove Vito visse con i genitori, i nonni Aniceto Annovi e Annunciata Micagni, i cinque fratelli (Armando, Renzo, Ada, Dimma e Franca) e le famiglie degli zii Diego Annovi e Agostino Annovi.
Assieme a tutti i membri del suo nucleo famigliare svolgeva la professione di contadino mezzadro.
Vito, come tradizione delle famiglie contadine del tempo, ha frequentato la scuola solo fino alla 3° elementare, ma chi lo aveva conosciuto diceva che scriveva bene e che gli piaceva leggere il giornale.
Dal foglio matricolare si evince che era alto 1,75, di corporatura robusta, capelli castani, occhi castani e colorito roseo.
Fu chiamato per la prima volta alle armi nel marzo 1933 come militare di leva: servizio svolto nel 18° Reggimento Artiglieria da Campagna, dal quale venne congedato nell’Agosto 1934 con i gradi di caporale maggiore. Venne poi richiamato alle armi una seconda volta nel 1938 nel 11° Reggimento Artiglieria del Monferrato, una terza volta nel 1939 ed infine per la quarta ed ultima volta il 12 giugno del 1940, quando, a seguito dell’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania Nazista avvenuta due giorni prima, venne inviato in Albania nell’11° Reggimento Artiglieria Alessandria.
Qui Vito, divenuto nel frattempo sergente nel maggio del 1942, venne catturato dalle truppe naziste subito dopo l’armistizio del 8 settembre 1943, in quanto si rifiutò di aderire alla Repubblica fascista di Salò, e fu trasferito come IMI (Internato Militare Italiano, cui non erano riconosciuti i diritti previsti dagli accordi internazionali per i prigionieri di guerra) in uno dei tanti campi di prigionia che in Austria facevano da costellazione al lager principale di Mauthausen: il campo di Rottenmann – Steiermark, nella regione della Stiria.
Lì morì il 7 Marzo 1945 all’età di 32 anni, per polmonite e malnutrizione conseguenti ad una detenzione trascorsa in condizioni disumane, che lo portarono a pesare appena 40 kg al momento del decesso, e fu inizialmente sepolto nel locale cimitero civile cattolico.
In seguito le sue spoglie sono state traslate a Reiferdorf, piccola frazione del comune di Mauthausen (Austria), nel cimitero militare italiano, dove riposano attualmente, posizione tombale: fila 1, tomba 7.
Biografia essenziale:
Valentino Parmiggiani nasce il 29 Aprile del 1923 a Modena. Catturato come prigioniero di guerra dalle forze armate tedesche l’8 Settembre 1943 in Grecia, fu prima internato nel campo di prigionia di Hammerstein, Czarne in Polonia, e poi trasferito nello Stalag VI D presso Dortmund Scharnhorst, in Germania per essere impiegato nei lavori forzati. Morì qui il 25 Maggio 1944 per un collasso cardiaco, a ventun anni appena compiuti.
Il cittadino a cui abbiamo dedicato la prima pietra d’inciampo rubierese è Valentino Parmiggiani.
L’11 Novembre 1939 Valentino da Soliera in provincia di Modena si trasferisce con la famiglia a Fontana di Rubiera, nell’omonima via al civico 41. Vive con i nonni Geminiano Parmeggiani e Olimpia Martinelli, i suoi genitori Archimede e Marcellina Annovi, i fratelli minori, Ettore e Fernando, e lavora come mezzadro coltivando il fondo agricolo e allevando le vacche da latte di proprietà dei fratelli Umberto e Fernando Gobbi.
Dal suo foglio matricolare emerge un ragazzo di 1,73 mt. di altezza, il viso “giusto”, il naso “retto”, il mento “sporgente”, i capelli “castani e lisci”, gli occhi “castani”, le sopracciglia “castane”, la fronte “alta” e il colorito “roseo”. Aveva frequentato la scuola fino alla terza elementare, quindi sapeva leggere e scrivere. Con una grande passione per i camion, non appena gli fu possibile, ottenne la patente di guida.
Fa il contadino mezzadro fino al 10 Settembre 1942, e da quella data viene chiamato alle armi e arruolato nel 10° Reggimento Autieri. Si tratta dell’arma addetta al trasporto di uomini e materiali. Dai racconti dei familiari, emerge che Valentino fu inviato al fronte in Albania e in Grecia col compito di guidare le ambulanze.
In seguito all’Armistizio di Cassibile, venne catturato in Grecia come prigioniero di guerra dalle forze armate tedesche l’8 Settembre 1943, in quanto soldato italiano. Nonostante le condizioni dei prigionieri non rispettassero la Convenzione di Ginevra, Valentino, come molti altri IMI (Internati Militari Italiani), ha il coraggio di rifiutare la possibilità di unirsi all’esercito della repubblica sociale italiana.
Internato (con Matricola n. 56759/II.B) nel campo di prigionia di Hammerstein, Czarne in Polonia, viene poi trasferito nello Stalag VI D presso Dortmund Scharnhorst, in Germania ed impiegato nei lavori forzati. Le condizioni di vita dei deportati, costretti a lavori ininterrotti per giorni e giorni e cibo insufficiente e scadente, non consentivano di sopravvivere a lungo.
Così, a ventun anni appena compiuti, Valentino cessò di vivere.
Era il 25 Maggio 1944: un collasso cardiaco, causato dall’aver mangiato troppo velocemente il contenuto di un pacco di viveri che gli era stato recapitato, in una situazione di persistente malnutrizione e grave deperimento organico che aveva colpito il suo corpo. La famiglia ne ebbe notizia solo più tardi, attraverso don Francesco Bosi, l’Arciprete di Fontana e in seguito, dopo il ritorno dalla prigionia, ne ebbe testimonianza diretta da Aldo Nanetti, internato insieme a Valentino. Valentino fu sepolto nel cimitero locale, nella parte riservata ai prigionieri di guerra. Ora riposa nel Cimitero Militare Italiano d’Onore di Francoforte sul Meno, nel Riquadro O, Fila 3 Tomba 6.
Guido nasce a Nonantola, in provincia di Modena, il 13 aprile 1921. I genitori sono originari del modenese e dopo il matrimonio, avvenuto il 29 maggio 1919, si trasferiscono oltre il Secchia.
Il padre, Ernesto, è bracciante agricolo e la madre, Emma Mazzoli, è massaia.
La famiglia si stabilisce nella frazione di Sant’Agata di Rubiera dove nascono Evelina (1922), Ada (1923), Dario (1924), Antina (1926) ed Odetta (1929). Dario ed Odetta muoiono dopo pochi giorni dalla nascita, mentre Evelina, Ada e Antina, dopo la fine della Seconda guerra mondiale si sposano e si trasferirono a Modena.
Viso ovale, naso aquilino, bocca stretta, capelli e occhi castani, 1 metro e 60 centimetri di altezza, ha frequentato la terza elementare e sa leggere e scrivere. Così Guido viene descritto nel suo foglio di leva, il documento che contiene informazioni sul suo servizio militare.
È chiamato alle armi il 21 gennaio 1941, inizialmente nel 33° Reggimento fanteria carrista e nel dicembre dello stesso anno inviato in Libia, a Bengasi.
Nel maggio del 1942, come meccanico, è aggregato nel 21° Parco Speciale Automobilistico e nell’aprile del 1943, rimpatriato in Italia al Parco Automobilistico in Bologna.
Quando l’8 settembre 1943 l’Italia si arrende incondizionatamente agli Alleati anglo-americani, Guido, come centinaia di migliaia di soldati italiani, si rifiuta di continuare la guerra insieme ai fascisti e al fianco della Germania nazista. Diventa così uno dei tanti Italienische Militärinternierte, i militari italiani deportati e internati in Germania (IMI).
Guido viene deportato, in un primo momento, nello Stalag IIB, nella Polonia sotto la dominazione nazista e poi in Germania, nello Stalag IIIA di Luckenwalde.
Il suo corpo è troppo debilitato dal lungo periodo di prigionia, Guido muore di malattia il 5 agosto 1945, circa quattro mesi dopo la Liberazione dello Stalag. Ha solo 24 anni.
Oggi le sue spoglie riposano nel cimitero di Nonantola, suo paese natale.
Grazie ai documenti è stato possibile ricostruire alcuni spostamenti della famiglia Sighinolfi. Come braccianti erano costretti a trasferirsi quasi stagionalmente in cerca di lavoro. Il domicilio della famiglia si sposta in varie abitazioni rurali e poderi della zona, molti di questi non più esistenti oggi. Proprio per l’impossibilità di stabilire con certezza l’abitazione della famiglia e di Guido, si è scelto di posare la Pietra di Inciampo alla sua memoria di fianco alla chiesa di Sant’Agata, simbolo della frazione.